Un vademecum per il dialogo con gli antichi: Chi ha paura dei Greci e dei Romani? di Maurizio Bettini

Differenza. Identità. Persona.

Le tre parole chiave intorno alle quali, con lucidità e un pizzico di ironia latente, in Chi ha paura dei Greci e dei Romani?, Maurizio Bettini sviluppa le proprie considerazioni sul recente fenomeno del decolonizing classics, nell’ambito della cancel culture che negli ultimi anni sta mettendo in discussione le cosiddette fondamenta – o almeno ciò che siamo sempre stati abituati a considerare tali – della cultura occidentale.

In discussione prova a mettersi lo stesso Bettini che con l’atteggiamento proprio di chi intende indagare i presupposti teorici e pratici del fenomeno, per comprenderne ragioni e motivazioni, rivaluta di conseguenza anche le posizioni più rigide dei classicisti e, più in generale, della nostra cultura.

Il punto di partenza, infatti, è il rifiuto dell’idea che Greci e Romani rappresentino i nostri unici antenati e di una loro presunta “superiorità”, frutto di un’educazione tanto scolastico-accademica quanto culturale tutta italiana.

La domanda cruciale che ne deriva, allora, è la seguente: “Che cos’è per noi la cultura greca e romana?”

Maurizio Bettini Chi ha paura dei Greci e dei Romani?
la copertina del saggio di Maurizio Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani?, pubblicato da Giulio Einaudi Editore (2023) nella collana Vele

Per rispondere tenendo conto delle due differenti posizioni occorre, innanzitutto, cercare di instaurare un dialogo che, come riveleranno alcuni emblematici casi di cronaca per lo più americana analizzati dallo scrittore nel saggio, non sempre è possibile.

Infatti, lo stesso concetto di dialogo presuppone l’uso ragionato del logos, alla base del quale Bettini pone una disposizione d’animo già individuata da Platone nella sua VII lettera:

[…] Platone l’aveva già detto. La comprensione richiede in primo luogo una buona disposizione naturale: e ora questa disposizione la vediamo esprimersi, in modo più definito, nella forma di un “atteggiamento” positivo, scevro di animosità o ostilità, che si mette in pratica al momento di discutere in gruppo su un determinato argomento. Solo allora la scintilla della saggezza e dell’intelligenza potrà scoccare”.1

Un invito, dunque, a rifiutare la “comunicazione volgare”2 a favore del rispetto e dell’attenzione al linguaggio nel rivolgersi a categorie di persone diverse per ragioni etniche, culturali, sociali, ecc.

Platone Aristotele PoliticaRaffaello Sanzio, La Scuola di Atene; al centro Platone e Aristotele. Affresco (1509-1511 circa), Musei Vaticani. Foto di Rafael in pubblico dominio

È qui che entra in gioco la prima parola chiave del saggio: differenza, intesa a partire dalla sua stessa etimologia come qualcosa che “divide e separa” e che, per questo, fa paura e rischia di rappresentare una barriera invalicabile. Paradossalmente, però, il diverso è oggi qualcuno che cerca in tutti i modi e a tutti i costi di affermare e far riconoscere la propria identità e nel farlo finisce di fatto per uniformarsi a una categoria assolutizzante. Basti pensare alle minoranze etniche o di genere che lamentano una scarsa rappresentazione negli ambiti più disparati e ne rivendicano il diritto, effettuando a loro volta una “selezione”.

A tal proposito, Bettini propone uno spunto piuttosto significativo sulla degenerazione del fenomeno:

[…] Ecco che a questo punto il dialogo si interrompe: al momento di tradurre un testo, operazione dialogica quant’altri mai, vi sono “interlocutori” che non vengono riconosciuti validi in base alla loro identità etnica o di genere. [..] Resta da chiedersi se la pratica della chiusura, l’esaltazione della differenza opposta all’apertura verso il dialogo, sia la via giusta per affrontare il problema collaterale che viene posto, o non finisca piuttosto per acuirlo”.3

E ancora:

In definitiva, concentrando la propria attenzione sulle differenze, soprattutto di genere, d’etnia o colore della pelle, l’atteggiamento liberal che ha suscitato questo dibattito rischia di allinearsi con quello, di segno (ahimè) opposto, di chi punta sulle medesime “differenze” per chiudere i porti, combattere le ong o comunque rifiutare l’accoglienza e l’integrazione dei diversi i quali, oggi più che mai, bussano alle nostre porte.”4

Insomma, questa strenua fede nell’identità non solo limita la preservazione della differenza, ma ottiene gli effetti contrari a quelli auspicati, vale a dire chiusura ed esclusione.

Chi ha paura dei Greci e dei Romani di Maurizio Bettini Foto di Francesca Barracca
la copertina del saggio di Maurizio Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani?, pubblicato da Giulio Einaudi Editore (2023) nella collana Vele. Foto di Francesca Barracca

Al concetto di identità andrebbe, invece, opposto quello di “persona” inteso, ancora una volta, a partire dalla sua accezione antica. Diviene, così, ancora più evidente l’importanza di mantenere vivo il contatto con l’antichità. Bettini, infatti, propone di utilizzare la parola “persona” – che designa i diversi ruoli che un individuo svolge, le posizioni che occupa e le funzioni che esercita nella vita reale5 – per superare la “particolarità identitaria” di un individuo e rivendicarne la libertà. In quanto termine che supera le differenze di genere, infatti, lo fa in virtù di un’umanità condivisa.

Con tali presupposti nelle pagine seguenti lo scrittore si dedica all’analisi vera e propria della cancel culture e delle sue radici geografiche e ideologiche. In particolare, Bettini sottolinea l’importanza dei contesti di riferimento dei due “schieramenti”: da un lato gli Stati Uniti in cui il fenomeno ha avuto maggior risonanza e diffusione, dall’altro l’Italia. Dunque, rispettivamente una storia costituita da secoli di discriminazioni e schiavitù americana e un innegabile privilegio italiano. Di qui la necessità del decolonizing classics di rimuovere, censurare, reinterpretare a proprio piacimento testi di un passato basato su una visione del mondo che non coincide più con quella attuale, in continua lotta per la conquista dei diritti a lungo negati.

Ad esempio, ciò che il fenomeno richiede infatti – oltre ad altre richieste più o meno legittime che Bettini non trascura di indagare a fondo – è che

Lo studio delle culture greca e romana venga a includere anche quello degli altri popoli che con esse hanno condiviso lo spazio dell’antichità […] che si cessi di usare l’espressione “eredità classica” intendendo, più o meno esplicitamente, che tale patrimonio costituisca il sostrato della civiltà occidentale. […] Soprattutto, è il canone degli autori classici che si chiede di smantellare, ovvero di riscrivere, in quanto la sua stessa struttura sarebbe inestricabilmente legata all’imperialismo, al sessismo, al razzismo e al colonialismo dell’Occidente.”6

Le conseguenze di tali pretese trovano riscontro, per il filologo, in quella che egli definisce come “pedagogia della protezione”7 , volta a proteggere, appunto, soprattutto gli studenti e in virtù della quale i testi classici di contenuto “moralmente discutibile” andrebbero preceduti da veri e propri trigger warning. è così che Maurizio Bettini inizia a prendere posizioni più nette e suggerire delle controproposte che possano evitare la chiusura del dialogo con la civiltà classica. Spetterebbe soprattutto agli insegnanti, infatti, partire dalle differenze insite nella società, nella cultura e nei testi classici per proporre riflessioni che mettano a confronto l’antichità stessa con l’attualità, così come le stesse edizioni critiche dei testi classici dovrebbero spingersi oltre l’analisi linguistica e filologica, per allargare gli orizzonti in prospettiva antropologica. Del resto, grande responsabilità nella trasmissione di una certa “memoria collettiva”8 relativa ai personaggi o agli aspetti più conosciuti della civiltà classica è attribuita proprio alle scuole e alle università, impegnate da sempre in una trasmissione del sapere tradizionale che trascura spesso le differenze che ci separano dal mondo antico naturalizzando, dando per scontato eventi e aspetti che suscitano quel turbamento su cui puntano proprio i sostenitori del decolonizing classics. Per non parlare della responsabilità tutta italiana di un uso selettivo dell’eredità classica di cui è enorme testimonianza, per fare un esempio storico, la propaganda fascista e il suo grande “mito di Roma”.

la copertina del saggio di Maurizio Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani?, pubblicato da Giulio Einaudi Editore (2023) nella collana Vele. Foto di Francesca Barracca

Insomma, quel che Bettini intende sottolineare è che la stessa cultura italiana non manca di colpe e responsabilità nell’aver tramandato una certa idea elitaria di “classico”, eppure, nonostante ciò, tanto lui quanto chiunque possa o voglia venir coinvolto nel dibattito deve riconoscere che senza la cosiddetta “eredità classica” il decolonizing classics non avrebbe potuto neppure sviluppare il dibattito stesso o battersi per i propri diritti, perché gli stessi strumenti che l’hanno reso possibile e le radici delle lotte che combattono sono da ricercare in quella stessa cultura che il fenomeno rifiuta.

La soluzione, a questo punto, sembra chiara: il dialogo tra noi e gli antichi non può essere interrotto in alcun modo, ma deve costituire la base per una riflessione costante sul presente e, da questo punto di vista, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? può rivelarsi un vero e proprio vademecum. Il vademecum del classicista che vuol sopravvivere alle accuse, ma anche semplicemente di chi vuol capire come mantenere vivo il dialogo con i classici e più in generale con la storia. È questa, infatti, che ne esce vincitrice e che in ogni dibattito che ne mina le fondamenta dovrebbe uscirne tale.
Non a caso Bettini ricorda il significativo “Angelus Novus” protagonista del dipinto di Paul Klee e che Walter Benjamin interpreta come l’angelo della storia che non ha più tempo per curare le ferite o salvare qualcosa o qualcuno dalle macerie, ma è già proiettato nella bufera del futuro. Se lui non può più guardare indietro per modificare le cose, noi, però possiamo farlo per dialogare con esse, magari sedendo dietro una cattedra, e spiegare le differenze tra noi e loro, tra ieri e oggi, comprenderle e superarle accettandole come una tappa inevitabile, se non necessaria, dell’evoluzione.

Insomma, la vera decolonizzazione dei classici consiste in primo luogo nel liberarli da “noi”, dalla loro forzata assimilazione alla nostra cultura. […] Se vogliamo coinvolgere anche i classici nella battaglia contro le discriminazioni, presenti e future, non dobbiamo limitarci a una condanna morale della loro cultura ma, al contrario possiamo utilizzarli come strumento di comparazione utile a interpretare i presupposti di questi atteggiamenti oggi inaccettabili. Perché il confronto con i modelli culturali che la cultura antica ci offre, è capace di aiutarci a comprendere non solo il passato, ma anche il presente.”9

la copertina del saggio di Maurizio Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani?, pubblicato da Giulio Einaudi Editore (2023) nella collana Vele. Foto di Francesca Barracca

Note: 

1 M. Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e cancel culture, Einaudi, Torino 2023, p. 12.

2 Ivi, p. 17.

3 Ivi, pp. 25-27

4 Ivi, p. 33.

5 Cfr. pp. 39-43.

6 Ivi, pp. 71-72.

7 Ivi, p.73

8 Ivi, p.109.

9 Ivi, p.133.

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.

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