Marco Venerio Secundio, intervista al professor Llorenç Alapont
Nell’area extramoenia di Pompei, nella necropoli di Porta Sarno, l’équipe di Llorenç Alapont in collaborazione con il Parco archeologico di Pompei ha portato alla luce i resti del liberto Marco Venerio Secundio. In questa intervista abbiamo chiesto al Professor Alapont dell’Università Europea di Valencia di raccontarci i dettagli della scoperta.
Ad agosto è stata annunciata la scoperta di una nuova tomba nella necropoli di Porta Sarno. A chi apparteneva e in che zona della città siamo?
La tomba di Marcus Venerius Secundio si trova nell’area funeraria situata all’esterno di Porta Sarno. Si tratta di una posizione particolarmente privilegiata, poiché attraverso Porta Sarno si accedeva alla Via dell’Abbondanza, una delle strade più importanti e trafficate di Pompei.
L’area funeraria è stata scoperta nel 1998 durante un intervento di archeologia preventiva; questa indagine ha portato alla luce due strade: la prima è la prosecuzione della Via dell’Abbondanza fuori città, mentre la seconda è un percorso che costeggia le mura dall’esterno e si dirige verso Porta Nola. Nella stessa occasione sono stati inoltre scoperti due mausolei monumentali e due piccoli monumenti funerari dedicati a soldati pretoriani, ciascuno dei quali coronato da lapidi marmoree inscritte. L’iscrizione di una delle lapidi identifica il defunto come Lucius Mettius Martialis, che ricopriva il grado di “speculatore”, cioè capo della guardia pretoriana; costui aveva svolto il suo servizio per 10 anni e morì all’età di 30.
Purtroppo, a seguito di questo breve intervento di scavo, le indagini si fermarono e l’area rimase abbandonata per lungo tempo.
Solo nel 2018, a 20 anni di distanza, le indagini sono ripartite grazie al progetto di ricerca e valorizzazione “Indagare l’archeologia della morte a Pompei, Necropoli di Porta Sarno“, con scavi sistematici che hanno interessato l’intera area funeraria.
La tomba di Marcus Venerius Secundio è composta da una camera sepolcrale situata all’interno di un recinto rettangolare. L’edificio è affacciato a sud, rivolto in direzione di Porta Sarno; la facciata della tomba è coronata da un timpano triangolare in cui è inserita l’iscrizione che identifica il defunto proprietario della tomba, ed è decorata da un affresco raffigurante un giardino con alberi, arbusti e una piccola fontana al centro. La funzione del dipinto è quella di rappresentare i Campi Elisi o l’aldilà come un bellissimo giardino.
All’interno del recinto funerario, infissa nel terreno, è presente una columella di marmo bianco con la scritta NOVIA AMABILES, che era la moglie di Marcus Venerius. Davanti alla columella c’è una piccola lastra quadrata di marmo su cui potevano essere depositate le offerte. Accanto ad essa, nell’angolo nord-est del recinto, è stata trovata un’anfora Dressel 2-4 chiusa con un coperchio. Questa serviva da condotto di libagione in funzione dell’urna di vetro di Novia Amabiles, che era protetta da due grandi tegole e inserita in una cassa metallica. Tra la cassa di metallo e l’urna di vetro era presente un grande chiodo di bronzo, che serviva a sigillare simbolicamente l’urna e a caratterizzare la tomba come locus religiosus. Accanto all’anfora è stato rinvenuto un unguentario di vetro intatto: tali unguentaria venivano utilizzati durante le offerte che si svolgevano qualche tempo dopo il funerale.
L’urna di vetro era riempita da un liquido di colore simile al vino rosso; oltre a riscontrare la presenza di resti vegetali simili a fiori, lo studio preliminare delle ossa combuste al suo interno ha permesso di rilevare fino a quattro individui, un adulto e tre bambini, il primo tra 6-8 anni, il secondo tra 4-6 anni e il terzo tra 3-5 anni. La presenza di più individui nella stessa urna è di per sé una rarità. Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, in questa stessa necropoli anche l’urna del soldato pretoriano conteneva le ossa di un adulto e di un bambino di circa 8 anni.
La camera sepolcrale aveva un accesso ermeticamente sigillato da blocchi di tufo e malta, e rifinito all’esterno con un’ intonacatura di matrice argillosa rossastra.
Perché Marcus Venerius viene inumato e mummificato, e non cremato secondo il rituale stabilito dalle norme dell’epoca?
Possiamo trovare risposta a questo quesito nelle correnti culturali diffusesi grazie a Nerone. Il funerale della seconda moglie Poppea Sabina, infatti, che era originaria di Pompei, ci dà una serie di indizi rivelatori. Nerone la amava disperatamente, e voleva offrirle un funerale del tutto particolare, preservando il suo corpo ed evitando che fosse consumato dal fuoco.
Tacito riferisce che “il corpo di Poppea non fu cremato secondo l’uso romano, ma seguendo le usanze dei re stranieri fu coperta di spezie profumate e imbalsamata, e poi consegnata al mausoleo dei Giulii”. Il termine “re stranieri” si riferisce probabilmente ai governanti del Mediterraneo orientale, e in particolare alle sepolture reali macedoni. Sappiamo che Giulio Cesare aveva ammirato il corpo imbalsamato di Alessandro Magno ad Alessandria, e che altri imperatori romani hanno seguito il suo esempio. Ma l’imbalsamazione e la mummificazione sono anche tipici dei riti di sepoltura persiani, egiziani e ebraici.
I casi di imbalsamazione e mummificazione nell’Impero Romano nel I sec. d.C., al di fuori dell’Egitto, possono a malapena essere contati sulle dita di una mano. Oltre alla sepoltura di Marcus Venerius, altri due casi sono particolarmente paradigmatici: il primo è quello dell‘Ipogeo delle Ghirlande a Grottaferrata, in cui all’interno di una camera funeraria sigillata, la madre Aebutia Quarta e suo figlio Carvilius Gemellus, membri di una delle famiglie più note del patriziato romano, furono imbalsamati e mummificati con mirra, resina di pino e latte di capra, seguendo fedelmente i metodi egizi.
Il secondo caso è riferito ad Abscantus, un ricco membro della famiglia di Domiziano, che fece imbalsamare e inumare sua moglie Priscilla come descrive Stazio: “Qui il vostro distinto marito ti ha deposto. Priscilla, coperta dolcemente dalla porpora sidoniana sul letto benedetto, perché non era in grado di sopportare la pira fumante e il clamore della tomba. Il lungo tempo non sarà in grado di consumarti, le fatiche dell’eternità non saranno in grado di rovinarti. Tali disposizioni sono state fatte per il vostro corpo, il marmo venerabile ispira grandi ricchezze”.
Le inumazioni di Poppea, Aebutia, Carvilius e Priscilla, come quella di Marcus Venerius, hanno rotto con la tradizione. La sepoltura di quest’ultimo è particolarmente eccezionale non solo perché non segue le norme consuete, ma anche perché rappresenta un trattamento diverso rispetto a quello dei membri della sua famiglia, le cui cremazioni si trovano all’interno del stesso recinto funerario. Questa differenza è un chiaro segno di distinzione, di esclusività e di potere, una stravaganza che era appannaggio di alcuni privilegiati di alto rango sociale ma anche di alto livello culturale.
Come accennato in precedenza, la scelta di inumare i membri dell’élite nell’Italia romana può essere contestualizzata sullo sfondo dello spirito e dell’atmosfera culturale neroniana. La particolare natura della sepoltura di Poppea ricorda altri esempi dell’amore di Nerone per l’ostentazione e la ricercatezza: molte delle sue azioni sembrano essere state ispirate da Alessandro Magno e da altri re ellenistici.
Dato il gusto di Nerone per la cultura egizia ed ellenistica, non sorprende che sia ricorso ad una modalità così singolare e ispirata all’oriente per seppellire sua moglie. Il suo crescente interesse per tali espressioni culturali corrisponde d’altra parte alla necessità di esprimere il potere in modo nuovo. La sepoltura di Poppea permise infatti a Nerone di patrocinare una particolare estetica del potere ritraendosi nelle vesti di un re ellenistico o di un sovrano egizio.
L’influenza del mondo ellenistico e lo spirito cosmopolita dell’epoca neroniana rappresentano in definitiva le motivazioni più probabili per l’uso dell’inumazione e dell’imbalsamazione durante il I secolo d.C., oltre al possibile desiderio di soddisfare gusti personali o di ostentare un privilegio che era appannaggio della classe più agiata. Si tratta in definitiva di un’ostentazione di potere. Antropologi e archeologi hanno infatti convenuto che la sepoltura rappresenta un comportamento consapevole da parte dei vivi, e quindi dovrebbe essere letta come la rappresentazione dell’identità o del ruolo del defunto nella società.
Chi era Marcus Venerius Secundio e che ruolo aveva a Pompei?
Dall’iscrizione possiamo conoscere chi era Marcus Venerius Secundio, il defunto proprietario della tomba.
M(Arcus) VENERIUS COLONIAE
LIB(ertus) SECUNDIO AEDITUUS
VENERIS AUGUSTALIS ET MIN(ister)
EORUM HIC SOLUS LUDOS GRAECOS ET
LATINOS QUADRIDUO DEDIT
(“Marcus Venerius Secundio, Liberto della Colonia, guardiano del tempio di Venere, Augustale e ministro di questi – gli Augustales -. Egli solo ha sponsorizzato giochi/ spettacoli greci e latini“)
Secundio era uno schiavo pubblico che era stato liberato, fatto che è esplicitamente menzionato nell’iscrizione – “Coloniae Libertus” -, ma che è anche evidente dal suo nome. Il gentilizio Venerius deriva dal nome ufficiale che Pompei assunse nel momento in cui diventò colonia romana, intorno all’80 a.C.: Colonia Veneria Pompeianorum. Gli schiavi liberati ricevevano solitamente praenomen e gentilizio dei loro ex padroni, mentre in questo caso è il nome della città che determina il nome del liberto. Il cognomen Secundio deriva probabilmente dal suo nome da schiavo.
Un uomo con il nome “M. Venerius Sec.” compare citato in una delle tavolette di cera trovate nella casa di Caecilius Iucundus in via Vesuvio. Risale agli anni precedenti il 62 d.C., e contiene la ricevuta di un pagamento per terreni pubblici, raccolti da uno schiavo pubblico di nome Privatus per conto della città. M. Venerius figura come uno dei testimoni che firmano tali documenti con il loro nome e sigillo.
Sebbene il nome rimandi all’identità di un uomo libero o di un liberto, Theodor Mommsen, che per primo ha pubblicato le tavolette di cera, ha ipotizzato che dovesse trattarsi dello schiavo pubblico di nome Secundus, che aveva firmato un documento simile per conto della città nel 53 d.C. (la sua liberazione sarebbe dunque avvenuta successivamente al 53 d.C.). Se, ancora, costui fosse il defunto di cui trattiamo, sarebbe possibile sciogliere “M. Venerius Sec.” in Marcus Venerius Secundio; tuttavia, la leggera differenza che sussiste tra i nomi Secundio e Secundus impone un’analisi più approfondita.
A favore di un’identificazione tra i due soggetti potremmo considerare che il numero di schiavi pubblici era all’epoca piuttosto esiguo, e ancor più esiguo il numero di coloro che potevano relazionarsi con uomini ricchi come Cecilio Iucundo, il che renderebbe poco probabile un tale caso di omonimia. Ammettendo che il Secundus della tavoletta di cera e il Secundio dell’iscrizione di Porta Sarno siano la stessa persona, nel primo caso ancora nelle vesti di Servus Publicus e nel secondo caso come liberto, ci sono due possibilità di spiegare la discrepanza tra i due nomi.
Si potrebbe pensare a un errore di scrittura, ma dato che entrambi i nomi appaiono in testi ufficiali si tratterebbe di un caso raro (vedi, tuttavia, l’esempio di Novia Amabiles – Amabilis – che verrà citato in seguito, proveniente sempre dalla necropoli di Porta Sarno e pertinente al monumento di Marcus Venerius Secundio). Si potrebbe in secondo luogo ipotizzare che il cognomen Secundus sia stato ufficialmente modificato in Secundio.
Sappiamo infatti che il nome di un liberto non era interamente predeterminato: così, per esempio, Cicerone scelse di denominare il suo schiavo Tiro secondo la regola generale (Marcus Tullius Tiro), mentre scelse un nomen differente per il suo schiavo Dionysius, che dopo la manomissione divenne Marcus Pomponius Dionysius prendendo il nomen dall’amico di Cicerone Titus Pomponius Atticus.
È probabile che tali cambiamenti potessero interessare anche il cognomen, che di norma era il nome dello schiavo prima della sua manomissione, soprattutto se consideriamo che i padroni erano soliti modificare i nomi dei loro schiavi. In Plauto (Asinaria, v. 373-4), ad esempio, il cambio di nome è usato come minaccia verso uno schiavo: “se non ti comporti bene, farai cambiare il tuo nome proprio oggi in modo scorretto“. La stessa pratica poteva essere usata anche per ricompensare un servo fedele. Nel caso di Marco Venerio non si tratterebbe di un cambiamento radicale, ma di una leggera variazione del molto comune Secundus nel molto meno frequente Secundio. In ogni caso, si tratta di ipotesi cui allo stato attuale non possiamo trovare conferma.
Allo stesso modo, le ragioni per cui Marcus fu scelto come praenomen del nostro liberto rimangono oscure. Marco potrebbe essere stato il nome del magistrato che, secondo la procedura descritta nelle fonti, sostenne la liberazione di Secundio. Uno dei modi per ottenere la manomissione era infatti quello di fare una dichiarazione davanti un magistrato: padrone e schiavo difendevano i motivi davanti a lui, che concedeva la libertà solo se la dichiarazione lo convinceva. Tuttavia, non abbiamo alcuna possibilità di corroborare questa ipotesi, poiché manca un elenco esaustivo dei magistrati di Pompei.
Dopo il nome, l’iscrizione elenca gli uffici che Marcus Venerius Secundio deteneva: aedituus Veneris (guardiano del tempio di Venere), Augustalis (membro del Collegio degli Augustales) e “ministro di questi” (gli Augustales). Quest’ultimo ufficio è certamente il più umile, che Secundio probabilmente mantenne pur essendo diventato un uomo libero. I Ministri erano infatti gli assistenti del Collegio, e solitamente si trattava di schiavi. Dopo la sua manomissione, salì al rango di Augustale, un ufficio a cui solo i liberti di maggior successo potevano aspirare.
Data l’importanza di questo ufficio, è curioso che l’iscrizione sembri enfatizzare maggiormente il fatto che egli fosse aedituus Veneris, menzionando questo incarico prima degli altri uffici. In questo contesto va sottolineato che la natura dell’aedituus nell’Italia romana variava ampiamente. In alcuni casi si trattava di un ufficio simile a quello di un custode, e quindi era ricoperto da schiavi e/o liberti, ma sappiamo anche di casi in cui l’aedituus godeva evidentemente di uno status piuttosto elevato, come ad esempio a Tusculum.
Poiché l’iscrizione da Porta Sarno sembra sottolineare questo ufficio, è possibile che anche in questo caso abbiamo a che fare con un aedituus di rango superiore. Vale anche la pena ricordare che Secundio era responsabile del tempio della divinità più importante di Pompei, la divinità da cui in questo periodo la colonia e i suoi liberti prendevano il nome.
L’iscrizione si conclude menzionando “giochi/spettacoli greci e latini” che Venerius Secundio offrì per la durata di quattro giorni, tema che tratteremo più avanti in un paragrafo dedicato. Possiamo qui anticipare che ci sono numerosi momenti nella sua vita in cui ci si potrebbe aspettare una tale iniziativa da lui, il primo dei quali è rappresentato dall’ingresso nel collegio degli Augustales.
Un certo numero di iscrizioni che si riferiscono ad Augustales eletti “gratis” suggeriscono infatti che normalmente l’ammissione non fosse gratuita: il pegno per guadagnarla consisteva spesso nell’offerta di giochi/spettacoli. Sembra che solitamente gli Augustali offrissero Ludi sia durante le feste annuali che in occasioni speciali, come nell’episodio svoltosi a Puteoli nel 53 d.C. Qui, quando tre liberti e Augustales organizzarono giochi per il 17 e il 18 febbraio in onore di Nerone e sua madre Agrippina.
Non possiamo inoltre escludere che il Ludi si siano svolti in un contesto diverso, ad esempio durante una festa in onore di Venere, dato che Secundio era l’aedituus del suo tempio, ma anche per una celebrazione in onore di Nerone al momento di une delle sue visite a Pompei. Sappiamo, grazie ad un graffito realizzato dopo il terremoto del 62 d.C. nella casa di Caio Giulio Polivio affacciata in via dell’Abbondanza, che Nerone visitò il tempio di Venere e qui offrì una grande quantità di monete d’oro.
Infine, i giochi potrebbero essere stati offerti in occasione la sua manomissione. Riguardo a quest’ultima possibilità, gli esempi di schiavi pubblici liberati che finanziano feste o opere pubbliche suggeriscono che molte di queste offerte venivano fatte in sostituzione della tassa che doveva essere pagata al tesoro pubblico per questo passaggio. I frammenti della lex Irnitana, che sono stati trovati nel 1981 vicino alla piccola città di El Saucejo nel sud della Spagna, ci informano che la somma che uno schiavo pubblico doveva pagare per la sua manomissione (pecuniam dare) era stata determinata dall’ Ordo Decurionum, e che il pagamento poteva anche avvenire con modalità alternative al denaro (pecuniam satis facere).
Si è parlato di un personaggio che ha portato in città “Ludi greci e latini”. In cosa consistevano e perchè prima si potevano solo ipotizzare?
L’iscrizione della tomba si conclude citando i “giochi/spettacoli greci e latini” cheVenerius Secundio ha offerto per la durata di quattro giorni. Sembra che gli spettacoli, noti come Ludi Graeci et Latini, furono introdotti per la prima volta a Roma nel 240 a.C., come parte dell’importante festival annuale dei Ludi Romani.
Secondo alcune correnti interpretative, i Ludi Graeci sarebbero quelli ricordati da autori latini che si ispirano a soggetti greci, cioè le opere di Livio Andronico, Ennio, Plauto o Terenzio, mentre i Ludi Latini sarebbero costituiti dalle più tradizionali rappresentazioni romane conosciute come praetextae e togatae, e altre ancora. A sostegno di questa tesi si porta l’esempio dei Ludi Graeci et Latini offerti durante i Ludi Saeculari organizzati da Augusto nel 17 a.C. In quell’occasione, i Ludi Graeci Thymelici furono messi in scena nel teatro di Pompeo, mentre i Ludi Scaenici latini ebbero luogo in un teatro temporaneo in legno prossimo alla riva del Tevere.
Tuttavia, ci sono in realtà poche prove a sostegno del fatto che i Ludi Graeci fossero rappresentati dalle opere in stile greco scritte in lingua latina. Per di più, anche se ciò dovesse valere per la tarda Repubblica, vi è chiara evidenza che il significato dell’espressione Ludi Graeci et Latini era piuttosto ampio, e che sia cambiato significativamente nel corso del tempo.
Il termine Ludi Graeci poteva forse denotare rappresentazioni di tragedie, danze e spettacoli poetici in latino ispirati ai modelli greci, pantomima e performance atletiche (forse con accompagnamento musicale), spettacoli teatrali e musicali in lingua greca, ma nel momento in cui Marco Venerio Secundio fu sepolto tali espressioni si riferivano a qualcosa di molto diverso. Evidentemente, all’inizio del periodo imperiale, la labile differenza tra i giochi della tradizione greca e i giochi della tradizione latina, se mai sia esistita, era semplicemente obsoleta.
Lo stesso vale per l’associazione (altrettanto ipotetica) con i Ludi Romani che i Ludi Graeci et Latini avrebbero potuto avere una volta. Un’iscrizione proveniente da Caeres presenta un gruppo di dodici uomini, probabilmente tutti liberti, che organizzano commedie e giochi latini e greci il 24, 25, 26 e 27 febbraio del 25 d.C., servendo torte e vino al popolo, sotto il consolato di Marco Asinio Agrippa e Cosso Cornelio Lentulo.
Il testo è interessante per diversi motivi: in primo luogo, come a Pompei, sono i liberti che stanno organizzando i giochi; in secondo luogo, i giochi durano quattro giorni, proprio come nel nostro caso. Manca purtroppo la parte iniziale dell’scrizione, ma si possono leggere le lettere “AV”; non è perciò improbabile che i liberti agissero come AVGVSTALES, dato che questo rientra fra i pochi uffici pubblici accessibili al loro rango. Come si ricorderà, anche Marco Venerio Secundio era membro del Collegio degli Augustali, mentre la durata di quattro giorni coincide con quella canonica delle rappresentazioni sceniche durante i Ludi Romani.
Tuttavia, le date 24-27 febbraio non sono conformi a quelle dei Ludi Romani, che di norma si svolgevano a settembre, né alle date di qualsiasi altra festa romana nota. I Ludi di Caere erano dunque parte di un festival annuale locale che non conosciamo o di una particolare celebrazione che si svolse solo in quell’occasione. Ciò dimostra chiaramente che nel 25 d.C., al tempo del regno di Tiberio e in una città romana, l’espressione “Ludi Graeci et Latini” aveva un significato generico, applicabile a tutti i tipi di Ludi, e non era affatto limitata al contesto dei Ludi Romani o a una forma specifica, ma prevedeva performances derivanti tanto dalla tradizione greca quanto da quella latina.
È quindi chiaro che i Ludi Graeci non erano, o non erano più, “giochi greci” intesi come reinterpretazioni latine di soggetti greci, ma il loro carattere doveva consistere in qualcos’altro, forse nell’uso della lingua greca durante le rappresentazioni sceniche o musicali. Non avrebbe infatti senso etichettare una performance come “greca” solo perché deriva o è ispirata a spettacoli greci, se consideriamo che anche le antiche togatae romane possono ritenersi in qualche modo ispirate alla stessa tradizione.
Ci cono poi attestazione di numerosi attori greci che si esibiscono a Roma durante il primo periodo imperiale, e Svetonio ci informa che Cesare chiamò “attori di tutte le lingue” per il Ludi che organizzò in vari quartieri di Roma; Nerone stesso si esibì in lingua greca. Tacito lamenta inoltre che quando Nerone istituì i Ludi Iuvenum nel 59 d.C., la recitazione greca divenne l’occupazione di tutto il popolo romano.
Una moneta che è stata trovata in una delle sepolture a incinerazione del recinto di Marcus Venerius Secundio dà un suggerimento su come la moda di organizzare tali spettacoli avesse raggiunto città come Pompei. La sepoltura di Novia Amabilis conteneva infatti una moneta di bronzo risalente al 65 d.C., che celebra il Certamen quinquennale istituito a Roma (CER QVINQ ROMAE CON S C), noto anche come Neronia. Come i Ludi Iuvenales, i Neronia erano ispirati alle feste greche, in particolare a quelle di Delfi e Olimpia.
Consistevano in agoni musicali, giochi atletici e corse di cavalli. La moneta riflette non solo lo spirito dell’era neroniana, ma cattura anche le modalità con cui lo spirito è stato trasmesso e percepito in tutto l’impero. I Ludi Graeci et Latini organizzati da Marcus Venerius Secundio possono dunque essere visti come un’emulazione dei Ludi neroniani, che coinvolge attori e musicisti greci e latini.
Se l’iscrizione funeraria di Venerius Secundio mette molta enfasi sul fatto che i giochi offerti includevano sia spettacoli greci che latini, la stessa non specifica dove si svolsero questi spettacoli (nel teatro?), né in quale occasione si tennero. I Ludi si tenevano di norma durante le festività, i cui nomi e date sono ben noti per Roma ma molto meno per le colonie, pertanto in questo caso non è possibile individuare l’occasione in cui furono offerti.
A questo proposito sono interessanti alcuni graffiti individuati a Pompei nella casa di Paquio Proculo, dove si può leggere: “il 30 marzo vi furono giochi olimpici neroniani”. Ancora, nella casa di Quinto Poppeo Sabino un’iscrizione greca ricorda l’avvio dei giochi Sebasta, giochi olimpici in onore di Nerone.
Gli Augustiani, il primo fenomeno “FAN” della storia
Nerone aveva curato a Roma, secondo un’ispirazione di tipo ellenestico, la formazione di un corpo di giovani che vennero chiamati Augustiani, ed erano destinati a formare la sua claque. Questo movimento raccoglieva quei giovani che simpatizzavano con le idee dell’imperatore, e venivano istruiti nelle varie tecniche di applaudire le sue performances.
Svetonio afferma che Nerone era così soddisfatto del modo in cui era stato applaudito da un gruppo di alessandrini, che chiese loro di insegnare ad alcuni giovani di sua fiducia a fare lo stesso. Aggiunge anche che questi giovani seguivano Nerone gridando: “Noi siamo gli Augustiani, i soldati del suo trionfo”.
A Pompei ci sono testimonianze epigrafiche dell’organizzazione di questo tipo di seguito dell’imperatore, ad esempio nella casa di Lucio Popidio Ampliato, sulla Via dell’Abbondanza. Per immaginare quale fosse l’importanza che Nerone attribuiva alla sua claque è sufficiente considerare che i responsabili, per lo più provenienti direttamente da Alessandria, ricevevano come compenso l’ingente somma di quattrocentomila sesterzi.
Nerone ebbe una particolare predilezione per la Campania, per Napoli e soprattutto per Pompei, di cui sua amata Poppea era originaria. Il suo debutto artistico avvenne proprio nel teatro di Napoli.
A Pompei il filellenismo di Nerone, che recitava in greco e metteva in scena opere greche, cadde su un terreno fertile. Diversi studiosi hanno raccolto testimonianze della presenza di persone di lingua greca nel territorio, appartenenti a tutte le classi sociali. Al livello più basso c’erano schiavi, lavoratori del sesso, artigiani e mercanti dalla Grecia o da altre parti del Mediterraneo orientale.
Parallelamente, anche l’élite imparò il greco: la villa dei Papiri a Ercolano e case come quella di Menandro a Pompei suggeriscono che le classi sociali più elevate investirono una notevole quantità di tempo, energia e risorse nello studio dei testi greci e nella raccolta di opere greche. L’ambizione di partecipare alla cultura elitaria spinse di conseguenza anche la classe media a fare lo stesso, tanto che abbiamo prove epigrafiche di bambini che vengono istruiti sui testi di Omero e altri poeti greci.
Su queste basi gli studiosi hanno iniziato a convincersi che la lingua greca fosse molto utilizzata negli spettacoli teatrali e poetico-musicali a Pompei. Una tavoletta d’avorio incisa qui rinvenuta lo rende davvero plausibile: essa reca da un lato l’immagine del teatro di Pompei e dall’altro il nome Aischylos, scritto in lettere greche. Si pensa che la tavoletta sia servita come biglietto d’ingresso per uno spettacolo teatrale, probabilmente un’opera di Eschilo interpretata in lingua originale.
In questo contesto prende sempre maggior credito l’ipotesi che l’iscrizione della tomba di Marco Venerio Secundio costituisca un’ulteriore conferma della consuetudine pompeiana di mettere in scena le rappresentazioni greche. Sappiamo anche che gli attori greci vivevano e si esibivano nella vicina città di Napoli, che in effetti è un’antica colonia greca dove allora si continuava a parlare il greco.
Messe insieme, le testimonianze epigrafiche e archeologiche della tomba ritrovata a Porta Sarno forniscono una chiara visione della complessità che ha caratterizzato l’emulazione e la trasmissione di modelli culturali e rituali ellenistici tra Roma e le province. In particolare, nel nostro caso assistiamo a un esempio di come i gruppi sociali al di sotto dell’élite partecipino attivamente alla promozione di nuove tendenze che pochi decenni dopo sarebbero diventate canoniche. Dal II secolo d.C. in poi, infatti, l’inumazione diventerà il rito di sepoltura predominante nell’Impero Romano.
Dal punto di vista antropologico si è detto che l’individuo è uno dei “corpi” meglio conservati di Pompei. Ci può parlare delle analisi che avete condotto sui resti e che informazioni ne avete dedotto?
All’interno della camera funeraria, sul lato est, si trovava lo scheletro di un individuo adulto di oltre 60 anni, come dimostrato dalla completa ossificazione della cartilagine tiroidea oltre che dai segni di usura sui denti e sulle articolazioni. Lo studio bioantropologico ha inoltre rilevato diverse lesioni traumatiche sul lato destro, tra cui la frattura della clavicola destra.
Questi traumi sopravvengono di norma a seguito di una grave caduta, tuttaviaMarcus Venerius sembra aver ricevuto eccellenti cure che gli permisero di riprendersi con successo da questo incidente. Al contrario, nonostante fosse stato uno schiavo, non mostra segni di stress biomeccanico, né i traumi tipici dei lavori usuranti.
Il corpo appariva adagiato di schiena, con la testa poggiata su un blocco di pietra a guisa di cuscino. Accanto al blocco sono stati rinvenuti due unguenti di vetro, utilizzati durante il rituale funebre per aspergere il defunto con olio profumato e consacrare il suo sepolcro.
Lo scheletro presenta un eccezionale stato di conservazione: i capelli bianchi e l’orecchio sinistro sono infatti rimasti intatti. Il corpo era interamente coperto da una sostanza organica la cui natura sarà rivelata dalle analisi in corso, ma che sembrerebbe riconducibile ai resti di un sudario costituito da elementi vegetali impregnati di resina o miele.
La presenza combinata di questo sudario e dell’ambiente anaerobico creatosi a seguito della chiusura ermetica della tomba ha dunque determinato una parziale mummificazione del soggetto. Il normale processo di mummificazione si verifica infatti quando la disidratazione del cadavere è provocata dall’aria che circola in un ambiente secco e che, in assenza dello scambio di ossigeno e umidità con l’esterno, ferma la putrefazione.
D’altra parte, pratiche di imbalsamazione tipiche della regione orientale del Mediterraneo e del Vicino Oriente che miravano a preservare il cadavere, prevedevano l’uso del miele e di altre sostanze profumate e resinose, come ricordato da Tacito e Lucrezio, unitamente all’uso dell’amianto, che in questi casi assume un aspetto simile al legno marcito ed è documentato in numerosi contesti funerari del periodo imperiale.
Ci saranno programmi di valorizzazione e fruizione della tomba?
Sì, è già stata avviata la pianificazione per la conservazione e la valorizzazione sia della tomba che della zona della necropoli di Porta Sarno. Si sta pianificando l’accesso alla tomba e alla necropoli, anche attraverso l’apertura del collegamento della via dell’Abbondanza, che integrerebbe la zona all’interno del parco di Pompei e permetterebbe l’accesso dei visitatori dall’interno dello stesso parco.
Il progetto è coordinato dal Direttore Generale di Pompei Gabriel Zuchtriegel
Il direttore scientifico e dello scavo è Llorenç Alapont (Università di Valencia)
La co-direttrice scientifica è Luana Toniolo (Parco Archeologico di Pompei)
Con la collaborazione di Joaquin Alfonso, Valeria Amoretti, Chiara Cicone Sarah F. Evans, Maeva Lheriteau, Pilar Mas, Ana Miguelez, Tania Saez, Juan José Ruiz López, Altea Gadea, Alfio Giannotti.
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