Karima Lazali, l trauma coloniale – Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria, Astarte Edizioni (2022) – recensione

Tra i paesi che hanno subìto la colonizzazione, l’Algeria è tra quelli che hanno pagato il sacrificio più alto. La violenza ha infatti attraversato tutte le generazioni, senza sostanziali interruzioni. Ogni ceto sociale, e quasi ogni famiglia, ha pianto vittime, sparizioni, torture. E oggi, in un paese solo apparentemente pacificato, è necessario fare i conti con le ripercussioni sociali e psicologiche di questi avvenimenti.

Karima Lazali ha conosciuto da vicino storie di individui che cercano di fare i conti con il loro passato. Da psicanalista attiva sia a Parigi sia ad Algeri, ha avuto infatti la possibilità di esplorare il trauma coloniale in Algeria da diversi punti di vista. La sua esperienza di anni di attività professionale è stata poi sviluppata in un libro essenziale per comprendere la realtà del paese nordafricano. Questa pubblicazione, Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria (trad. di Barbara Sommovigo, pp. 300, euro 24), è oggi disponibile in italiano grazie alla giovane casa editrice toscana Astarte.

La copertina del libro di Karima Lazali, “Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria”, con prefazione di Roberto Beneduce e Simona Taliani, pubblicato da Astarte Edizioni, 2022 nella collana Dimensioni e prospettive

La ricerca di Lazali agisce su un livello transdisciplinare. Anzitutto, com’è evidente, connettendo l’aspetto psicanalitico del trauma coloniale in Algeria al tessuto socio-politico del paese. Ciò non sarebbe possibile senza un’ampia analisi della storia algerina degli ultimi due secoli. Del resto, come scrive l’autrice nell’Introduzione,

La Storia non parla da sola, sono i soggetti che la fanno parlare […]. La psicoanalisi non può fare a meno della Storia e, tuttavia, servendoci solamente di quest’ultima finiremmo finiremmo per non cogliere la parte intima che lavora senza tregua a interpretarla. […] Il soggetto, quale che sia la sua provenienza, si costruisce nella Storia e attraverso la Storia (p. 41).

Meno ovvia appare invece l’«alleanza» di storia e psicanalisi con la letteratura. Il libro di Lazali è infatti intessuto di frequenti richiami a opere letterarie di scrittori algerini del Novecento, ognuno a suo modo coinvolto nelle dinamiche storiche del paese, offrendo un punto di vista originale su quegli avvenimenti così come sulla propria vicenda personale. Un’attenzione alla produzione letteraria che incrocia a sua volta la dimensione linguistica. E quest’ultima, a causa di censure e obblighi sottoposti alla popolazione nel corso del tempo, consente di tornare ancora alla storia e alla psicanalisi. In un circolo transdisciplinare che l’autrice riassume così:

La storia coglie, la letteratura scrive e la psicoanalisi legge ciò che nel testo si trova nello spazio bianco dei suoi margini (p. 45).

trauma coloniale in Algeria
Barricate ad Algeri, gennaio 1960. Foto di Michel Marcheux, CC BY-SA 2.5

Ma sono soprattutto le tappe della storia del paese degli ultimi due secoli a rappresentare, nel loro insieme, la «dimensione collettiva di uno sconforto dilagante e inafferrabile» (p. 50). A partire dalla conquista francese dell’Algeria, nel luglio del 1830. Un’aggressione militare condotta, secondo la vulgata colonialista, per riparare un’offesa del governante ottomano di Algeri; in realtà, per non dover pagare un debito contratto anni prima dalla monarchia francese. Una violenza che proseguirà anche con il passaggio alla République nel 1870: la “missione civilizzatrice” diventerà uno dei perni del suo programma politico. È in questi anni che viene il primo trauma coloniale in Algeria, con il suo carico di morte:

secondo gli storici, circa un terzo della popolazione è scomparso in seguito ai massacri di massa e alle carestie. Si trattava di uccidere il maggior numero di autoctoni e di instaurare in maniera definitiva il terrore al fine di “comprimere” il popolo arabo, secondo l’orribile formula del filosofo francese Alexis de Tocqueville (pp. 78-79).

Soldati dell’Esercito di liberazione nazionale durante la guerra di indipendenza algerina. Foto di Zdravko Pečar – Museum of African Art (Belgrade), CC BY-SA 4.0

L’esito di quell’ondata di violenza avrà ripercussioni anche dopo l’indipendenza e fino ai giorni nostri, assicura Lazali. Nella collettività algerina prevarrà infatti «il sentimento profondo che la vita umana non conta». Sentimento rafforzato, inevitabilmente, dall’efferatezza degli atti violenti. Come avvenne durante la repressione del maggio-giugno 1945, quando furono soffocate nel sangue in tutto il paese manifestazioni di “francesi musulmani” – impegnati fino a pochi mesi prima in Europa nella lotta al nazifascismo – per chiedere più diritti civili.

Hanno poi contribuito al trauma coloniale in Algeria altri generi di privazioni. La riforma dello stato civile del 1882, ad esempio, sovvertì il sistema di attribuzione del nome agli individui che apparteneva alla tradizione tribale, esportando il modello francese. Negli stessi anni venivano imposti, da parte dell’amministrazione coloniale, nomi arabi volgari e umilianti, compiendo una privazione di identità e di dignità. E ancora, riguardo alla lingua: l’espropriazione delle parlate indigene durante la colonizzazione si capovolge al momento dell’indipendenza, quando l’arabo letterario viene promosso lingua nazionale. Anche questa scelta, come sottolinea l’autrice, avrà conseguenze devastanti. Disarmerà infatti gli scrittori algerini che avevano scelto il francese con l’obiettivo «di ricreare la lingua viva, di inventare una sepoltura per gli scomparsi (corpi, nomi, terre), di fare della testualità un luogo di memoria che resiste alle cancellazioni» (p. 107). E condurrà a un «lavoro di rastrellamento di qualsiasi forma di alterità per insediare il regno dell’omogeneizzazione» (p. 125). Il partito unico al potere nella giovane Repubblica algerina, scrive ancora Lazali,

Ha santificato la lingua, l’ha voluta potente e intoccabile […]. Di conseguenza, questa lingua prendeva il posto della lingua francese, quella del padrone, e le opponeva un potere indefettibile, quello di Dio (p. 181).

Un carro armato ad Algeri, gennaio 1992. Foto di Saber68, CC BY-SA 3.0

La guerra civile degli anni Novanta tra lo Stato e il Fronte islamico di salvezza, entrambi aderenti a una «logica di sottomissione totalitaria» (p. 190), porterà ancora una volta a una violenza senza precedenti. Tra il 1992 e il 2000 massacri di massa, torture, deportazioni e campi di internamento nel deserto si concluderanno con un bilancio ufficiale di 200.000 morti. E il trauma si acutizzerà per «L’impossibile distinzione tra chi uccideva e chi doveva proteggere», per «L’abbattimento delle barriere distintive tra terrore e sicurezza» (p. 197). Violenze destinate in gran parte a restare senza colpevoli e senza giustizia.

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