Incalzante, doloroso, onirico: questi i tre aggettivi con cui Michelle Grillo descrive il proprio romanzo Il tempo che resta, uscito lo scorso febbraio poco prima del lockdown per Alessandro Polidoro Editore, nella collana Perkins, dedicata dalla casa editrice alla narrativa contemporanea. In occasione della riapertura e della ripartenza delle presentazioni letterarie, dopo un’ampia circolazione sui social, il romanzo può finalmente godere delle necessarie presentazioni fisiche.
Infatti, per comprendere ogni sfumatura della storia narrata è quasi indispensabile conoscerne retroscena, genesi e tanti altri dettagli, che l’incontro dello scorso 4 settembre presso il Chiostro di San Domenico Maggiore di Napoli, in occasione della rassegna letteraria “in-Chiostro”, ha portato alla luce. Per l’occasione, anche grazie alla book blogger Federica Scerbo che ha moderato l’incontro, e alla psicologa Benedetta Orlando, con attente domande si sono sviscerate le 148 pagine di narrazione.
Il tempo che resta è la storia di Anna, nata e cresciuta nella povertà, che porta cucita addosso una costante sensazione di disagio, nata da una consapevolezza di diversità rispetto ai coetanei e ai nuclei familiari del paesino in cui vive, nonché dal senso di profonda alienazione fisica e psicologica che è costretta a vivere nella sua cosiddetta “famiglia di laggiù”.
È proprio qui che tutto comincia, all’interno della famiglia, luogo di gioia e di orrore. La stessa autrice ricorda le famose parole di Richard Yates a proposito del ruolo imprescindibile della famiglia nella letteratura: “è possibile fare letteratura senza parlare delle famiglie?” Figlia di una madre autoritaria e a tratti tirannica e di un padre troppo remissivo, sorella di Sabrina e Michele, bambino che necessita di “attenzioni speciali”, Anna è profondamente influenzata dalla propria famiglia al punto da adeguare la propria vita a decisioni non sue, come quando, rimasta incinta, viene costretta dalla madre a sposare un uomo che non ama.
La figura materna, infatti, emerge dal testo con prepotenza e l’autrice ci rivela di aver immaginato per lei un passato che non trova spazio ne Il tempo che resta, ma che è facilmente intuibile dagli atteggiamenti che adotta: si tratta di un’orfana cresciuta in convento, vittima di ignoranza, incapace di dare amore perché non ne ha mai ricevuto. Per comprendere il realismo di un simile personaggio, allora, bisogna abbandonare l’idea canonica di una madre affettuosa, premurosa, attenta, per far posto ad una madre dal cuore arido, colei che Anna non vorrebbe mai diventare, ma con la quale, nel corso del romanzo, troverà più affinità di quanto forse sia disposta ad ammettere.
Anna si mostra, quindi, come un personaggio passivo, che non sperimenta una vera e propria evoluzione, ma che si abbandona remissivamente al proprio destino. Soltanto quando lascia entrare un altro uomo nella propria vita assapora un sentimento completamente nuovo e ne è così terrorizzata da pensare che “ci vuole una grande forza per sostenere il peso della felicità”. Risulta singolare, a tal proposito, che non si legga della consueta protagonista come di una donna forte, caparbia, capace di tenere le redini della propria esistenza; piuttosto assistiamo al risvolto negativo di quel senso di inadeguatezza e fragilità che caratterizza molte donne che si trovano nella sua stessa situazione. Quello che Anna ha subito è un vero e proprio trauma, costituito da ricordi che deve ricostruire con l’aiuto della psicologa dell’istituto in cui vive e del lettore stesso che si ritrova, infatti, a seguire le vicende della protagonista attraverso due piani temporali, un presente dal tempo sospeso in cui la percezione del tempo è labile o inesistente e un doloroso passato da indagare ed esplorare.
È nel “tempo”, parola chiave del romanzo, che si scova il suo senso ultimo. Il tempo che resta da vivere ad Anna è quello fermo e immobile dell’istituto in cui consuma le sue giornate tutte uguali, tra visite mediche e rare chiacchiere con le altre ragazze dell’istituto. Contrariamente a questo tempo che non “scorre”, però, la scrittura di Michelle Grillo fluisce rapida, favorendo il piacere di una lettura scorrevole e “incalzante”, come da lei stessa definita, e che regala un finale del tutto inaspettato.
L’indagine di Michelle Grillo sui sentimenti che almeno una volta nella vita tutti hanno provato non finisce qui e, in chiusura della presentazione, annuncia che continuerà a scrivere di donne, perché nessuno meglio di una donna può descriverne le sensazioni, le percezioni e i disagi. Se qui, dunque, il punto di partenza è la domanda: “Quanto l’inadeguatezza può influenzare un’esistenza?”, la prossima storia nasce dal desiderio di esplorare un sentimento affine: la vergogna.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.