21 Marzo 2015
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Dozzine di piante comuni sono tossiche. Gli archeologi hanno sospettato a lungo che i nostri antenati del Paleolitico utilizzassero i veleni dalle piante per rendere più letali le loro armi nella caccia. Adesso la dott.ssa Valentina Borgia si è unita a un chimico forense per sviluppare una tecnica per rilevare residui di sostanze letali presenti su reperti archeologici.
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Siamo circondati da piante velenose, che prosperano nei nostri parchi e giardini, cespugli e boschi. La digitale (Digitalis) sembra affascinante ma i suoi semi possono uccidere. I fiori dell’aconito (Aconitum napellus) sono di un blu intenso, ma le sue radici possono essere letali. La cicuta (Conium maculatum) è sia comune ed estremamente tossica, come ci ricordano Socrate e Platone, o Shakespeare nel Macbeth con gli incantesimi delle streghe.
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Gli archeologi hanno creduto a lungo che i nostri antenati estraessero i veleni da queste piante per rendere le loro armi più letali e uccidere le loro prede più rapidamente. Immergendo una punta di freccia in una pasta velenosa, il cacciatore poteva assicurarsi che l’animale ricevesse una dose di sostanze tossiche (alcaloidi o cardenolidi) che l’avrebbero ucciso immediatamente o rallentato.

Fino a pochissimo tempo fa è stato impossibile provare che i veleni estratti dalle piante fossero utilizzati dalle prime società. Ora la dott.ssa Valentina Borgia, specialista in armi da caccia paleolitiche e Marie Curie Fellow al McDonald Institute for Archaeological Research, crede di essere sul punto di provare che i nostri antenati utilizzavano veleni già 30 mila anni fa.
La Dott.ssa ha avvicinato l’uso probabile dei veleni da parte dei nostri lontani antenati da diversi punti di vista. La sua ricerca guarda all’ubiquità delle piante velenose in molti ambienti locali e al loro uso sia storico, sia da parte dei moderni cacciatori raccoglitori. Lavorando con un chimico forense ha anche sviluppato tecniche capaci di rivelare piccoli residui di veleno su reperti archeologici. Sta ora testando queste tecniche con campioni ottenuti dalle collezioni dei musei.
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“Sappiamo che i Babilonesi, i Greci e i Romani utilizzavano veleni ottenuti dalle piante sia per cacciare gli animali che in guerra. Infatti, la parola “tossico” deriva da toxon, parola greca che indica l’arco. Taxus è il genus dell’albero del tasso, con un legno elastico tradizionalmente utilizzato per fare archi. Produce anche semi utilizzati nelle frecce velenose. In Britannia, tassi coltivati per il loro legno erano piantati nel sagrato delle chiese, di modo che gli animali non fossero avvelenati dal mangiare le sue bacche”, spiega la dott.ssa Borgia.
“Poche società di cacciatori raccoglitori rimangono oggi, ma tutti i gruppi sopravvissuti impiegano veleni. Gli Yanomami della foresta pluviale amazzonica usano il curaro – un mix derivante dalle piante del genere Strychnos – per avvelenare le proprie frecce. In Africa, una varietà di piante diverse è utilizzata per produrre veleni. Acokanthera, Strophantus e Strychnos sono le più comuni.”
Molte popolazioni del Nord dell’Asia utilizzano l’aconito per uccidere grandi animali come l’orso e l’ibex siberiano. Le piante velenose compaiono anche nel folklore. In Malesia, i dardi sono avvelenati utilizzando Antiaris toxicaria, un veleno che viene dall’albero Upas. Una leggenda malese dice: “sette su, otto giù e nove senza vita”. La vittima compie sette passi in salita, otto passi in discesa e un nono passo finale.
Nel 2014, la dott.ssa Borgia si è avvalsa della competenza della chimica forense Michelle Carlin (Northumbria University) per sviluppare un metodo per rilevare residui di veleno. Il lavoro giornaliero che lei compie si concentra sul crimine e la rilevazione di sostanze illegali attraverso l’analisi chimica. Utilizzando una tecnica altamente specialistica, è in grado di rilevare tracce invisibili di droghe, come la cocaina nelle fodere delle tasche.
La medesima tecnica può essere utilizzata per rilevare la presenza di veleni utilizzati migliaia di anni fa. Borgia e Carlina hanno creato un database che elenca le piante tossiche e hanno sviluppato un metodo non distruttivo per raccogliere campioni di residui dai reperti archeologici, semplicemente toccandoli con cotone imbevuto di acqua pura.
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Campioni di piante velenose sono stati forniti ai ricercatori dal Giardino Botanico all’Università di Cambridge e Alnwick Castle, nel Northumberland. Alnwick ha un Giardino dei Veleni, nel quale i visitatori possono vedere 150 piante velenose. Alcune (come l’aconito) sono così tossiche che Alnwick ha dovuto ottenere una licenza dall’Home Office al fine di coltivarle.
Un’altra strada all’identificazione dei residui delle piante è quella di guardare alla presenza di amidi che rimangono sulla superficie delle armi preistoriche. Grani di amido possono essere utilizzati per determinare la taxa delle piante. Ogni specie ha dimensione, forma e struttura che la distingue. La dott.ssa Borgia ha collaborato con uno dei principali esperti in questa metodologia, il dott. Huw Barton (Università di Leicester) al fine di utilizzare i test dell’amido come uno dei metodi di ricerca.
Molti musei con collezioni etnografiche possiedono armi avvelenate nelle mostre e nei magazzini. La dott.ssa Borgia è stata in grado di raccogliere campioni dai reperti mantenuti dal Museo di Archeologia e Antropologia di Cambridge, dal Pitts Rivers Museum di Oxford e dal Museo Etnografico Pigorini di Roma, con la collaborazione del suo collega italiano, il dott. Jacopo Crezzini. Gli oggetti includono un vaso cinese con veleno di aconito all’interno (avvolto in un giornale datato 13 Luglio 1926), dardi malesi avvelenati con Upas, varie frecce africane e un tubo in vetro contenente curaro.
“La meravigliosa manifattura utilizzata per creare oggetti così fortemente associati al veleno è pure significativa. Come ebbe a dire il filosofo francese Simondon, non c’è congegno tecnico puro, libero da un significato simbolico”, spiega la dott.ssa Borgia.  “Questi manufatti esprimono pienamente il concetto, essendo dimostrazione di un alto livello di cura. Uno spaventoso arpione del Borneo , meravigliosamente inciso, e di proprietà del Museo di Cambridge, lo si pensa costruito a partire da un osso umano. Una nota, conservata con esso, avvisa: Attenzione. È stato avvelenato”.
L’analisi di questi campioni di materiali, da parte di Carlin, ha dimostrato che residui di veleni sono facilmente rilevabili sugli oggetti un secolo dopo e che i residui mantengono le loro caratteristiche chimiche. Ora la vera sfida per i ricercatori è quella di andare molto più indietro nel tempo.
Sta avendo ora luogo il test di campionamento di sei frecce con punta di pietra, risalenti all’Egitto predinastico e quindi a 4 mila anni prima di Cristo, ora conservati presso il Phoebe A Hearst Museum di Berkeley (USA). Al tempo nel quale queste frecce furono studiate per la prima volta, 40 anni fa, i ricercatori rimossero piccole porzioni di residuo nero, presente sulle punte, e lo iniettarono in un gatto. La reazione del povero animale (che sopravvisse) fu la prova della presenza di un veleno sulle frecce.
“Oggi abbiamo gli strumenti giusti per ottenere maggiori informazioni senza crudeltà verso gli animali. I test iniziali suggeriscono la presenza di Acokanthera, una pianta velenosa nel nostro database, ma non possiamo essere completamente certi visto che ci sono diversi componenti nel composto” ha detto la dott.ssa Borgia.
“Aveva senso utilizzare veleni. Di loro, le armi paleolitiche con frecce di pietra potevano non essere abbastanza letali da immobilizzare o uccidere un grosso animale come un cervo rosso. Le piante velenose erano abbondanti e la popolazione preistorica conosceva l’ambiente nel quale viveva, conosceva le piante commestibili e il loro potenziale come medicine e veleni. Creare un veleno è facile ed economico, e il rischio è minimo. In aggiunta, la produzione di veleni è spesso parte della tradizione e della ritualità della caccia.”
Quando gli archeologi rimuovono oggetti dal terreno, nel corso del lavoro di campo, spazzolano via il terreno aderente i ritrovamenti e talvolta lavano persino gli oggetti. La dott.ssa Borgia fa appello ai colleghi archeologi di contattarla quando effettuano ritrovamenti di armi, e di non lavare i reperti. “Ora abbiamo questa tecnica disponibile, e abbiamo dimostrato che funziona, bisogna testarla quanto più possibile su reperti archeologici”, dice.
La dott.ssa Borgia nega che il suo cognome (Lucrezia Borgia fu una leggendaria avvelenatrice) abbia sollecitato il suo interesse nei veleni, ma si diverte del motto latino ‘nomen omen’.  Aggiunge: “L’investigazione nell’uso dei veleni in tempi preistorici migliora la nostra comprensione delle tecniche di caccia e dei rituali, e del modo nel quale la pianta veniva sfruttata. Il medico rinascimentale Paracelso scrisse che dosis facit venenum (la dose fa il veleno).  Gli studi etnografici ci dicono che le più comuni piante tossiche utilizzate nei veleni furono anche trattate per curare le malattie. Non sorprendentemente, le stesse sostanze sono la base di molti medicamenti ancora in uso oggi.”
Link: University of Cambridge (traduzione con leggero adattamento e sintesi).
Strychnos toxifera (curaro) da Koehler, Piante Medicinali, 1887 (List of Koehler Images. Image processed by Thomas Schoepke at www.plant-pictures.de), da WikipediaPubblic Dominio, caricata da Toxicotravail.
Digitalis Purpurea (digitale), foto di Jensflorian sull’isola di Mainau. da WikipediaCC BY-SA 3.0, caricata da Foolip.
Aconitum napellus (aconito), da Tannheimer Berge, Austria, foto di Bernd Haynold, da WikipediaCC BY-SA 2.5, caricata da BerndH.
Arile di tasso europeo (taxis baccata), foto di Didier Descouens, da WikipediaCC BY-SA 4.0, caricata da Archaeodontosaurus.
Cancello all’entrata del Giardino dei Veleni dell’Alnwick Castle, foto di Steve F, da WikipediaCC BY-SA 2.0, caricata da GeographBot.
 
 
 
 
 
 

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