Giacomo Leopardi: umanità del poeta di Recanati
Spesso si è costretti (ad esempio, a scuola) a semplificare il pensiero di uno scrittore o di una scrittrice. Sia perché deve renderlo fruibile e comprensibile a tutti gli studenti, a seconda delle fasce d’età, sia perché deve privilegiare alcuni aspetti che la critica ritiene più importante.
Eppure, a volte il rischio è proprio quello di non farlo conoscere interamente e di oscurare aspetti della sua vita che farebbero cambiare opinione su di lui, e che magari lo renderebbero più “simpatico” e meno serioso. Il che non è un male, perché toglie quell’alone che ci rende distanti e irraggiungibili personaggi straordinari che, però, sono uomini, sono donne, esseri umani dotati di parola e pensiero, ossa e carne. Senza nulla togliere alla loro profondità, ma pure senza nascondere i limiti che può avere un qualunque essere umano. Giacomo Leopardi è uno di questi, e senza dubbio stiamo comunque parlando di uno straordinario poeta, filologo, grande scrittore.
Leopardi era una persona fuori da comune. È nato con delle caratteristiche uniche, che gli hanno permesso di scrivere versi incredibili, certo, ma anche di conoscere lingue antiche e moderne a menadito, di fare grandi lavori filosofici e non solo. E le sue capacità erano tanto più straordinarie perché era nato in un paesino, in cui il solo davvero rapito dalla sua testa fu, innanzitutto, il padre, il Conte Monaldo, che da subito trattenne il figlio nella sua grande biblioteca.
Giacomo doveva studiare, fare il filologo, lo studioso, lo scienziato. Nulla gli pareva impossibile, perché aveva una mente agilissima. Stupisce anche il suo insegnante e grande amico, Pietro Giordani. Che poi a questo si accompagnasse una grande insofferenza, irrequietezza, un’inquietudine insopprimibile: è il prezzo salato che spesso deve pagare un artista.
Che fosse estremamente intelligente è una delle prime cose che (fortunatamente) si studiano di Leopardi. Anche se poi si sottolinea che avesse avuto una vita infelicissima, tra malformazioni fisiche e pessimismo storico e cosmico, su cui tanto si è scritto e si continua a scrivere. Alcuni manuali quasi lasciano passare questo nostro Giacomo come un povero e infelice relitto, disprezzato dai contemporanei e ostacolato dai suoi stessi famigliari.
Si studia quanto fosse bigotta la madre e oppressivo il padre, ma non si racconta che quella cara Adelaide Antici, ben consapevole delle abilità del figlio e delle sue capacità incredibili, vendette tutti i suoi gioielli e ori, perché il suo genio di dodici anni potesse pubblicare alcune opere. Si mira, insomma, a dare una certa immagine di Leopardi e dei suoi familiari. Un’immagine semplificata e perfino superficiale di questo genio di Recanati.
Su una cosa non si approfondisce abbastanza, sempre su quei manuali di scuola: Giacomo si sentiva morire a Recanati. Non si sentiva capito, compreso, apprezzato. Era convinto che i suoi concittadini lo odiassero, lo invidiassero e non comprendessero il genio che avevano di fronte. Li vedeva cattivi e corrotti, poco propensi a mettersi in discussione, egoisti oltre ogni misura. Scrive nello Zibaldone che ogni cittadino gareggiava per soddisfare «i propri vantaggi reali» e in questa gara
«si superano tutti i riguardi, l’uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell’altro; gl’individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra […] aperta con ciascun altro, e con tutti insieme».
Vedeva in Monaldo, suo padre, il ritratto di quell’ambiente povero di mente e spirito, nonché il prodotto di un modo di pensare gretto e ostile al nuovo, poiché il padre gli negava i mezzi economici per poter vivere altrove liberamente.
Leopardi inizia a provare sfiducia nei confronti della società e della politica, negando che fosse possibile vivere in una società giusta, proprio a causa di quell’egoismo personale che l’avvelenava. Non la pensa come Jean-Jacques Rousseau, non crede che degli individui possano vivere bene insieme e far crescere una società. Nega che degli uomini possano creare una società giusta, sacrificando il proprio bene personale e mettendo al primo posto il bene comune. Non crede nel principio della volontà generale:
«Gl’interessi, o le opinioni che ciascuno ha sopra i suoi vantaggi […] sono infinite e diversissime. Quindi le forze di ciascuno non possono cospirare ad un solo fine».
E continua scrivendo che
«non c’è ragione, non è possibile né umano che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui».
Ma questa è una malattia della società moderna. In questo si vedono i limiti di un giovane Leopardi, fermo ai suoi studi classici, perché Giacomo ritiene che, durante la Repubblica Romana e l’Impero Romano, si pensasse al bene comune, alla Patria e non ognuno a sé. Risente molto, Leopardi, dei suoi studi e, come spesso è accaduto e continua ad accadere, ha idealizzato la società romana dell’epoca, rovinata a parer suo dal Cristianesimo. Pensiero che si può comprendere perché la famiglia di Giacomo era cattolica e questi si è ribellato a quella che percepiva come un’ulteriore chiusura.
Leopardi si sente un morto che cammina, un uomo di lettere e d’ingegno che soffre nella «sepoltura» di Recanati:
«son certo di non poter mai conseguire neppure quella fama a cui si sollevano i più piccoli scrittorelli, e che non si ottiene se non per mezzo di conoscenze, e di una vita menata in mezzo al mondo, e non del tutto fuori».
Scrive e riscrive continuamente di quella sua piccola e asfissiante Recanati e sogna Roma, l’ambiente di Roma, illudendosi che fosse simile alla Roma antica, una società più inclusiva, capace di riconoscere il suo genio. Nel 1822 si sottrae alla società recanatese ed entra in quella romana e la delusione che prova, interfacciandosi con questa realtà, è immensa. Nella grandezza territoriale di Roma ritrova una solitudine agghiacciante, che aumenta le distanze tra persona e persona. Vede «tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’esser spazi che contengano uomini».
A Roma trova indifferenza «quell’orribile passione, anzi spassione», una totale noncuranza verso il suo genio, il suo talento poetico. Cosa sperava di trovare Leopardi nella capitale? Fama, comprensione, affetto? L’amicizia degli altri intellettuali, per lui ignoranti e superficiali? Calore e qualcuno che credesse in lui? Eppure, trovò un ambiente chiuso, freddo, asettico, una prigione a cielo aperto, ove tutto si disperdeva nella malattia della noncuranza.
Riferimenti bibliografici:
Barthouil Georges, Guerra e Pace nell’opera di Giacomo Leopardi, in «Italianistica: Rivista di letteratura italiana» vol. 25, n.1, pp.91-109;
Biancu Stefano, L’ontologica poetica di Giacomo Leopardi, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» vol.95, n.2, 2003, pp.233-258;
Bonadeo Alfredo, Leopardi, l’individuo e la società, in «Italica» vol.63, n.2, 1986, pp.142-160;
Citati Pietro, Leopardi, Oscar Mondadori, Milano 2014.
Leopardi Giacomo, Zibaldone, edizione integrale diretta da L. Felici, premessa di E. Trevi, indici filologici di M. Dondero, Newton Compton Editori, Roma 2018.