Pandemonium: Neo-Decameron
Il lato dark fantasy della pandemia
Quando in letteratura si è trattato di parlare di epidemie, fughe e nuove prospettive per l’Umanità, il numero dieci si è rivelato vincente: dal Decameron di Boccaccio in poi, i suoi multipli – o sottomultipli, quale la “corruzione” favolistica del reale, contenuta nel Pentamerone di Basile – ne hanno scandito il percorso e ci hanno proiettati in una realtà allucinata, un tunnel dal quale uscire con i gomiti, fino a raggiungere la luce o il suo antipode.
Questa legge non scritta si rinnova con Pandemonium: Neo-Decameron (Lethal Books), concepito nei giorni successivi al lockdown degli scorsi mesi: è stato proprio l’abbattersi di questa scopa manzoniana sulle nostre esistenze a far germinare l’ambiziosa idea di un nuovo Decameron nelle mente dei dieci autori, i cui testi sono raccolti in questa antologia.
Cristiano Saccoccia (cui si deve anche la curatela), Francesco Corigliano, Riccardo Mardegan, Maurizio Ferrero, Mala Spina, Antonio Lanzetta, Caleb Battiago (Alessandro Manzetti), F.T. Hoffmann (Fabio Tarussio), Domenico Mortellaro, Laura Silvestri, Paolo Di Orazio, Luca Mazza e Jack Sensolini evocano un’Italia medievale in decadenza o dalla modernità corrotta: se nelle prime righe questo Stato surreale può risultare familiare al lettore, esso sarò presto deformato dal filtro della mente di chi immagina un Grande Male endemico e misterioso, in grado di spiegare le proprie trame lungo i rivoli più reconditi della fantasia, accesa come la fiamma di un tizzone infernale.
Vero punto di forza dell’antologia è la coralità, nonché la varietà di linguaggi che contraddistingue ciascun racconto e conferisce una visione multiforme del Morbo che attanaglia l’esistenza dei vari personaggi.
Si inizia con la storia del medico di Santa Canopia, che Francesco Corigliano immagina alla ricerca dell’epicentro di un’epidemia dove corpo umano e pietra si trovano convolti in “un’infezione dei palazzi, qualcosa che si insinuava non nei corpi organici ma nei mattoni, passando da edificio a edificio, corrompendo, deformando, schiudendo nuovi aspetti del concetto di Essere”, per poi passare con un deciso cambio di registro, alla cronaca dello scontro “stregato” tra il Capitano del Popolo Alvise Mustacchin, in difesa dei bestemmiatori di Camponogara, schiacciati tra il potere di Venezia e i voleri del vescovo Cornero, nel padovano del 1520. Ci si chiede poi, se una rievocazione dei Misteri pasquali, se il simulacro vivente della morte e resurrezione del Dio-Vivente, possa prestarsi a un supplizio, a una discesa negli inferi del peccato. Per Maurizio Ferrero la risposta è assolutamente positiva, se è questa la forma che assume il supplizio estremo per Lambrotto, lussurioso indemoniato che acquisterà la forma di una crocifissione in un racconto venato di rimandi danteschi, per poi concludersi con un finale che richiama il celebre romanzo Il Profumo di Patrick Süskind.
Un padre e una madre che discutono del proprio figliolo mentre lo seguono per via: cosa ci può essere di più rassicurante? Nulla, tranne l’idea di Mala Spina di far seguire il buon Goffredo Degli Spini dai fantasmi di coloro che lo misero al mondo, destreggiandosi al contempo tra gli Untori in un 1350 da incubo. Si ritorna poi ai panorami italiani da rifuggire, da lasciarsi alle spalle a ogni costo, nel racconto di Antonio Lanzetta, nel quale i due giovani protagonisti, gli orfanelli Rico e suo fratello Tobia, sono impegnati nella strenua fuga da Salerno, ormai ammorbata in ogni suo singolo aspetto, decadente e colma di pericoli, verso il porto sicuro di una Sardegna isolata dal Mondo allo sfacelo.
Si passa poi a trovare, tra oscurità e cenere, una moltitudine di gente bella e stecchita, ammassata davanti alla navicella di Caronte, che però nel racconto di Caleb Battiago (Alessandro Manzetti) ha il volto furfantesco e un po’ imbranato dello psicopompo Pandemonio, e dei suoi colleghi diavoli Fuliggine e Finimondo, alle prese con la difficoltà di gestire un afflusso di gente così cospicuo a causa della pestilenza.
Le forze del male non si risparmiano neppure nel racconto di F.T. Hoffmann (Fabio Tarussio), che si svolge in un Seicento friulano, battuto da un Benandante, figura mitica e magica allo stesso tempo, che forse riuscirà a porre un argine agli abusi compiuti intorno all’ultimo bastione della speranza, il monastero San Spedito Martire. Questo gusto per il soprannaturale che non lascia spazio a spiegazioni, lo troviamo anche nel racconto di Domenico Mortellaro, nel quale il nostro protagonista si accompagna da “Bari a Canosa, con la zingarella un po’ troppo appiccicata” beccandosi la “Nera”, che ora mai “da Canosa a Torre del Tuono, da qualche parte tra Giovinazzo, Terlizzi e Bitonto, e tosse, febbre, bubboni, non si potevano nascondere”: e lui, come risorge da morente? Ma è poi vero? I miracoli esistono? Lux in Tenebris!
Eccoci ora all’unica eroina, nel racconto di Laura Silvestri, la strega Fantàsima, che a Prato decide di fabbricarsi un servo risvegliando uno sventurato dal sonno eterno al quale la pestilenza del 1348 lo aveva condannato; ma un risvolto improvviso fa si che la lacrimevole storia del servo della strega, Rinaldo de’ Puglisi, giunga a un pubblico processo contro Monna Filippa. Il boccaccesco e l’orrido qui si coniugano mercé la pietas che suscita il caso del redivivo.
L’ultimo racconto, quello di Paolo Di Orazio, si svolge nella Città Eterna, che però rischia di crollare a causa della pestilenza che l’ha colpita: Fausto Bergmann, benestante ebreo del ghetto di Roma, cerca in ogni modo di sfuggire a quel disastro, generato non si sa da che carico di merce, forse, e giunto in città non si sa bene come: dovrà tuttavia rendersi conto che esistono cose dalle quali (forse) non si può sfuggire.
Sembra quasi che nella conclusione di tutti i racconti con questa ambientazione, riecheggino le ultime parole del Venerabile Beda “…ma quando cadrà Roma, anche il Mondo cadrà” (forse).
Ecco la dimensione, i Mondi, che gli amanti del genere e non solo potranno in questi racconti, le stesse sensazioni che trasmette il Pandemonium, l’omonimo quadro del pittore inglese John Martin: sullo sfondo la maestà di un mondo ordinato e monumentale, che può apparire costruito con pietre intagliate di granitiche certezze, ma che si liquefa alle fondamenta per colpa di un fiume di lava infernale scaturito da un cielo saettante, che una divinità maligna e rigeneratrice, un Marte senza tempo o una Minerva dal suo volto più terribile, evoca sul nostro capo.