La Cultura di Golasecca: un ponte tra Mediterraneo e mondo celtico
Un territorio ricco di laghi e fiumi, corsi d'acqua che consentono di percorre lunghi tragitti, di trasportare merci e persone, oltre che di garantirne la sussistenza. Un territorio così, come possiamo facilmente immaginare, era sicuramente considerato appetibile fin dai tempi più remoti.
Per ciò che concerne il territorio varesino la presenza dell'uomo è attestata fin dal Paleolitico e numerosissime sono le testimonianze raccolte nell'area che ad oggi consentono di seguire una linea di racconto continuativo fino alla romanizzazione.
Le fonti antiche non tramandano un nome nazionale per le genti che, a più riprese, abitarono la Lombardia occidentale. Del resto è cosa nota come non sia mai stato proprio della cultura mitteleuropea unirsi sotto un unico comando e come, pur legate da una matrice culturale comune, le genti d'oltralpe non furono mai un sol popolo.
Di queste tribù, calate dalle Alpi e in diversi momenti stanziatesi in area cisalpina abbiamo informazioni materiali numerose, che trovano appoggio in fonti scritte di età posteriore. Già Tito Livio, ad esempio, narrava di un'ondata gallica “Prisco Tarquinio Romae regnante”, ma certamente dobbiamo far risalire la celtizzazione del territorio anteriormente agli inizi del VI sec. a.C.
Fenomeni culturali e relative culture materiali possono essere seguiti in un percorso lineare dal Baltico al Mediterraneo e il territorio varesino, fertile terreno per sovrapposizioni e stratificazioni culturali, diventa così il nodo di collegamento tra mondo transalpino e culture meridionali.
Già nell'XI sec. a.C. parte della Lombardia occidentale, del Piemonte orientale e del Canton Ticino furono abitate da popolazioni di matrice celtica, le cui manifestazioni culturali sono identificate con il nome di Cultura di Golasecca, dal nome della cittadina nelle vicinanze dell'aeroporto Malpensa dove furono rinvenute le prime significative e numerose testimonianze.

Le origini di queste genti sembrano risalire all'età del Bronzo (XIII sec. a.C.) e sarebbero rimaste per lungo tempo aperte all'assorbimento di elementi culturali vari, mediterranei e mitteleuropei: è su questa base, difatti, che si innesta probabilmente l'ondata celtica del VI sec. e, più tardi, la romanizzazione.
Caratteri di continuità sono rintracciabili nell'area del Lago Maggiore, nell'area della Malpensa, di Castelletto Ticino, Sesto Calende, Golasecca, Como, e Canton Ticino: comune denominatore le vie d'acqua (di cui il Ticino è il grande protagonista) che furono cerniera per unire l'Oltralpe con il Po, l'Adriatico e infine il Mediterraneo.
Le principali reti di traffico comprendevano materie prime che viaggiavano da nord verso sud (metalli, in particolare stagno, ambra) e beni commestibili da sud verso nord (olio, cereali, vino).
Le nostre conoscenze della cultura celtica di Golasecca si basano soprattutto sul ritrovamento di sepolture, raggruppate in necropoli, e dei relativi corredi. Il rito era quello della cremazione, la modalità di sepoltura a “pozzetto”, a fossa o a cassa litica: in ciascuna di queste forme ricorre la presenza di uno scavo nel terreno, rivestito di ciottoli o coperto con lastra litica dove era deposta l'urna biconica contenente le ceneri del defunto e il corredo di accompagnamento.
Supponiamo una distinzione di ruoli sociali in base alla tipologia di oggetti rinvenuta: sicuramente importante era la posizione di coloro che erano deposti con le loro armi e vasellame bronzeo.

Per ciò che concerne la produzione ceramica, questa risulta costituita da vasellame modellato a mano (dal VI sec. a.C. al tornio lento) decorata con motivi geometrici standardizzati e ripetuti: il motivo decorativo tipico è il cosiddetto “dente di lupo”, costituito da una serie di triangoli riempiti a tratteggio.
Non mancano però testimonianze di contatto culturale con altre realtà coeve: motivi decorativi tratti dal repertorio orientalizzante etrusco e riadattati al modo locale, così come è stata evidenziata la presenza di oggetti di importazione dallo stesso ambito etrusco, ma anche magnogreco, piceno, veneto, villanoviano e hallstattiano, in una combinazione molto complessa di culture che si innestano sullo strato locale.

Il più antico calendario lunare in un ciottolo di 10.000 anni fa dei Castelli Romani
Un nuovo studio, coordinato dalla Sapienza, scopre il più antico calendario lunare in un ciottolo del Paleolitico superiore proveniente dai Colli Albani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Archaeological Science: Reports
Il calendario lunare più antico è in un ciottolo del Paleolitico superiore rinvenuto nella zona di Velletri, sui Colli Albani. A svelarlo è Flavio Altamura del Dipartimento di Scienze dell’antichità della Sapienza, in collaborazione con la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, che ha presentato i risultati di analisi condotte su un’enigmatica pietra decorata più di 10.000 anni fa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Journal of Archaeological Science: Reports.

Il reperto è stato rinvenuto nel 2007 sulla cima di Monte Alto, sui Colli Albani, a sud di Roma. Il manufatto è stato definito come strumento “notazionale” e rappresenta uno dei rarissimi reperti paleolitici per i quali gli studiosi hanno ipotizzato questo utilizzo. Ad attirare l’attenzione degli archeologi sono tre serie di brevi incisioni lineari, chiamate “tacche”, lungo tre lati adiacenti del ciottolo. I misteriosi segni comprendono rispettivamente sette, nove/dieci e undici tacche, disposte in maniera regolare e simmetrica, fino a esaurire lo spazio disponibile lungo ciascun lato.
Il complesso sistema di incisioni, il loro numero (27 o 28) e la loro distribuzione spaziale potrebbero indicare un sistema di conteggio basato sul ciclo della luna.
“Le indagini hanno rivelato – spiega Flavio Altamura – che le tacche sono state tracciate nel corso del tempo utilizzando più strumenti litici affilati, come se fossero servite per contare, calcolare o per immagazzinare la memoria di un qualche tipo di informazione”.

Il fatto che le incisioni presentino lo stesso numero dei giorni del mese lunare sinodico o sidereo rappresenta un caso unico tra i presunti oggetti interpretati come “calendari lunari”, rendendo l’esemplare di Monte Alto il più antico e verosimile esempio di questa categoria di manufatti nel record preistorico mondiale.
La scoperta è stata tanto straordinaria quanto inaspettata. Infatti la pietra è caratterizzata da una storia funzionale complessa: fu utilizzata prima come strumento per scheggiare e modificare manufatti di selce, cioè come percussore, per poi essere impiegata come pestello per polverizzare sostanze coloranti, per esempio l’ocra rossa. Dalle analisi petrografiche, i ricercatori inoltre hanno rilevato la composizione del ciottolo, constatando che questo tipo di materiale (calcare marnoso) proviene da siti geologici che distano decine di chilometri dal luogo di rinvenimento. Il ciottolo fu quindi trasportato a lungo prima di essere perso, abbandonato o deposto sulla cima di Monte Alto, un rilievo montuoso ripido e isolato.

Il reperto è quindi uno dei primi tentativi nella storia dell’uomo di comprendere e misurare lo scorrere del tempo e fornisce nuove acquisizioni sulle capacità cognitive e matematiche dell’uomo preistorico. Il manufatto dei Colli Albani, per quanto primordiale, può essere considerato l’antenato del moderno calendario “da tavolo” e segna in un certo senso l’inizio dell’interesse "scientifico" della nostra specie per la luna. Nel Paleolitico, l’uomo fece quindi il primo piccolo passo del cammino che lo ha portato, 10.000 anni dopo, alla conquista del nostro satellite.
Riferimenti:
A new notational artifact from the Upper Paleolithic? Technological and traceological analysis of a pebble decorated with notches found on Monte Alto (Velletri, Italy) - Altamura, F. - Journal of Archaeological Science: Reports 2019, 26, 101925. DOI: https://doi.org/10.1016/j.
Villaggio neolitico del quinto millennio a Tell al-Samara
La missione congiunta franco-egiziana a Tell al-Samara, guidata da Frederic Guyot dell'Institut Français d’Archéologie Orientale, ha svelato uno dei più antichi villaggi nel Delta del Nilo, nella provincia settentrionale egiziana del Governatorato di Daqahliyya. Daterebbe alla fine del quinto millennio a.C. Nella regione del Nilo, ritrovamenti risalenti al periodo neolitico sono presenti solo a Sais.
Tra i ritrovamenti effettuati dalla missione congiunta dell'IFAO e del Ministero delle Antichità egizie: ceramiche, strumenti litici, diversi silos nei quali erano resti animali e vegetali.
Le dichiarazioni di Ayman Ashmawy, a capo delle Antichità Egiziane per l'area, e di Nadia Khedr, responsabile del Ministero per le antichità egizie, romane e greche nel Mediterraneo, sembrano andare nella stessa direzione: i risultati della missione che opera a Tell Samara dal 2015 da una parte, e i materiali ritrovati dall'altra, permetteranno una migliore comprensione delle prime comunità insediate sul Delta del Nilo.
In particolare, potranno aiutare nella comprensione della transizione e del conseguente balzo tecnologico che portò da un'agricoltura neolitica fondata sulla pioggia a una invece fondata sull'irrigazione grazie al Nilo.
Link: Ministry of Antiquities, Luxor Times, Djed Medu, Egypt Independent, Reuters.
L'ambra siciliana arrivò prima di quella dal Baltico nell'Europa occidentale
Secondo un nuovo studio, pubblicato su PLOS One, l'arrivo dell'ambra siciliana nell'Europa occidentale precedette quello dell'ambra dal Baltico di almeno 2.000 anni
L'ambra 'baltica" dalla Scandinavia è spesso considerata come uno dei materiali chiave a circolare nell'Europa preistorica. Un nuovo studio, pubblicato su PLOS ONE, presenta ora prove archeologiche provenienti dalla penisola iberica, che dimostrerebbero l'esistenza di estese reti di scambio del materiale nel Mediterraneo della tarda preistoria.

La preziosa resina fossile dalla Sicilia avrebbe dunque viaggiato attorno al Mediterraneo occidentale almeno a partire dal quarto millennio a. C. e cioè almeno 2.000 anni prima dell'arrivo di qualsiasi ambra baltica in Iberia.

Secondo la dott.ssa Mercedes Murillo-Barroso dell'Università di Granada, le nuove prove presentate nello studio permettono di rivedere le datazioni sull'approvvigionamento e lo scambio della resina fossile nell'Iberia preistorica, indicando l'arrivo di ambra siciliana almeno dal quarto millennio a. C.
Ed è interessante notare che i primi oggetti in ambra ad essere prodotti in Sicilia (qui nota come simetite, dal nome del fiume Simeto; si tratta di una varietà rara e pregiata) risalgano proprio a quell'epoca. Eppure non vi sono prove che indichino uno scambio diretto tra Sicilia e Iberia per quel periodo; tuttavia è nota l'esistenza di legami tra penisola iberica e Nord Africa. Parrebbe dunque plausibile che l'ambra siciliana sia arrivata in Iberia per questo tramite.

Per la dottoressa è anche importante notare che la resina fossile appaia in siti dell'Iberia meridionale, con una distribuzione simile a quella degli oggetti in avorio; entrambi i materiali potrebbero essere dunque arrivati grazie agli stessi canali.

Per il professor Marcos Martinón-Torres, del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Cambridge, anche lui tra gli autori dello studio, solo a partire dalla tarda Età del Bronzo che l'ambra proveniente dal Baltico avrebbe raggiunto un gran numero di siti iberici. Pure lì appare più probabile sia arrivata attraverso il Mediterraneo, che non per il tramite di uno scambio diretto con la Scandinavia. A indicare il Mediterraneo sarebbe soprattutto l'associazione della resina fossile con ferro, argento e ceramiche.
A permettere agli studiosi di giungere a queste conclusioni è stata l'analisi effettuata con la spettroscopia infrarossa su 22 campioni di ambra portoghese e spagnola, datati tra il 4000 e il 1000 a. C.
L'ambra è una pietra preziosa, una resina fossile utilizzata già dalla Preistoria, con reti di scambio che precedenti studi hanno ricondotto al Tardo Paleolitico. Insieme ad altri materiali come giada, ossidiana e cristallo di rocca costituì un'importante materia prima per oggetti ornamentali.
Gli studiosi concludono che rimangono ancora aspetti inesplorati, meritevoli di investigazione futura, come la presenza della resina fossile in contesti nord-africani dello stesso periodo, oltre a quelli relativi all'introduzione e diffusione dell'ambra baltica in Iberia.

Testi dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Cambridge e dalla Public Library of Sciences.
Lo studio Amber in prehistoric Iberia: New data and a review, di Mercedes Murillo-Barroso, Enrique Peñalver, Primitiva Bueno, Rosa Barroso, Rodrigo de Balbín, Marcos Martinón-Torres, è stato pubblicato su PLOS ONE.
Un'adolescente con madre Neanderthal e padre Denisova
Fino a quarantamila anni fa, almeno due gruppi di ominidi abitavano l'Eurasia: i Neanderthal ad Occidente e i Denisovani ad Oriente. I due gruppi, attualmente estinti, si separarono circa 390 mila anni fa, costituendo i "parenti" più prossimi dei moderni umani attualmente viventi.

Un nuovo studio, pubblicato su Nature, ha presentato il sequenziamento del genoma di un frammento osseo proveniente dalla Grotta di Denisova, presso i monti Altai in Siberia, dove fu ritrovato nel 2012.
"Sapevamo da precedenti studi che Neanderthal e Denisovani dovevano aver occasionalmente avuto figli insieme", afferma Viviane Sloan, ricercatrice presso l'Istituto Max Planck per l'Antropologia Evolutiva. "Ma non avrei mai pensato potessimo essere così fortunati da ritrovare effettivamente un discendente dei due gruppi."

L'individuo (Denisova 11) al quale apparteneva il frammento in questione doveva avere attorno ai 13 anni, e visse 50 mila anni fa circa. L'adolescente aveva una madre Neanderthal e un padre Denisova, che a sua volta presentava però tracce della stirpe Neanderthal.
"Un aspetto interessante di questo genoma è che ci permette di comprendere elementi relativi alle due popolazioni: i Neanderthal da lato della madre e i Denisova dal lato del padre", spiega Fabrizio Mafessoni, anche lui dell'Istituto Max Planck.
Il padre proveniva da una popolazione alla quale appartenne anche un altro Denisova ritrovato nella grotta. La madre proveniva da una popolazione che era più vicina a quella dei Neanderthal che in seguito vissero in Europa, che non a quella dell'altro Neanderthal ritrovato nella stessa grotta. Importante anche l'aver verificato nell'osso la presenza di percentuali grosso modo eguali di DNA Neanderthal e Denisova.

La scoperta è di grandissimo rilievo e segna una nuova tappa nella nostra comprensione dei rapporti intercorsi tra questi gruppi di antichi umani, suggerendo che potesse essere comune la commistione tra loro nel Tardo Pleistocene.
Svante Pääbo, Direttore del Dipartimento di Genetica Evolutiva dell'Istituto, conclude: "Neanderthal e Denisova non dovevano avere molte occasioni di incontrarsi. Ma quando lo facevano, devono essersi accoppiati frequentemente, molto più di quanto pensassimo in precedenza."
Lo studio The genome of the offspring of a Neandertal mother and a Denisovan father, opera di Viviane Slon, Fabrizio Mafessoni, Benjamin Vernot, Cesare de Filippo, Steffi Grote, Bence Viola, Mateja Hajdinjak, Stéphane Peyrégne, Sarah Nagel, Samantha Brown, Katerina Douka, Tom Higham, Maxim B. Kozlikin, Michael V. Shunkov, Anatoly P. Derevianko, Janet Kelso, Matthias Meyer, Kay Prüfer, Svante Pääbo, è stato pubblicato su Nature il 22 Agosto 2018.
Cassano all’Ionio: recupero reperto “Bifacciale”
Recupero reperto “Bifacciale”
Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide – Cassano all’Ionio (Cosenza)
Il patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale è il centro intorno al quale si costruisce e si raccoglie l’identità e l’unità di un popolo. È questo il principio alla base dell’attenzione sempre più crescente nei confronti di una vera e propria cultura della restituzione, cioè quell’attenzione e cura da parte delle istituzioni e dei singoli verso la necessità di restituire alle comunità di appartenenza quei reperti archeologici detenuti in maniera lecita o illecita.
È in quest’ottica che il 25 settembre 2017 il Museo Archeologico della Sibaritide si vede restituire un reperto di straordinaria importanza proveniente da un’area dell’alta valle del fiume Coscile, nel comune di Castrovillari: un grande bifacciale amigdaloide databile al Paleolitico Antico.
Era il 1991 quando ebbero inizio i primi studi sul sito paleolitico antico dell’alto Coscile e il sito di Celimarro, nel comune di Castrovillari, a seguito di segnalazione da parte del dott. Giuseppe Lanza di Castrovillari, grande conoscitore e amante della propria terra, che si trovava in loco a svolgere rilievi geologici con l’equipe del prof. Ernesto Cravero del Dipartimento di Pianificazione e Scienza del territorio dell’Università Federico II di Napoli.
In seguito, i numerosi reperti rinvenuti sono stati ampiamente studiati dall’equipe del Prof. Francesco Fedele del dipartimento di Paleontologia dell’Università Federico II di Napoli, il quale li ha custoditi per motivi di studio, sotto autorizzazione dell’allora Soprintendente ai Beni Archeologici della Calabria, fino al 1997.
Tali reperti furono riconsegnati al Museo della Sibaritide il 16 gennaio 1998 per mano del dott. Giuseppe Lanza. Mancava però un reperto, forse il più importante: il grande Bifacciale. In una nota del Dipartimento di Paleontologia dell’Università di Napoli si precisava che tale reperto fosse ancora in possesso del prof. Cravero per motivi di studio.
Negli anni successivi si persero le tracce del reperto finché nell’aprile 2017 il Museo Archeologico della Sibaritide, nella persona della direttrice Dott.ssa Adele Bonofiglio, Polo Museale della Calabria, nella persona della direttrice Dott.ssa Angela Acordon, congiuntamente al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza, attivano le procedure per il recupero e la restituzione di questo importante reperto.
È doveroso dunque porgere un grande ringraziamento all’Arma dei Carabinieri, in particolare al Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza il quale agisce in modo tempestivo e solerte per il recupero del nostro patrimonio storico artistico e culturale. Da anni lavora a stretto contatto con le istituzioni culturali ed in particolare con il Museo della Sibaritide, con il quale vi è uno stretto rapporto di fiducia e collaborazione per tutte le attività di ricerca, studio, recupero e restituzione dei beni appartenenti all’intero territorio della Sibaritide.
Il ringraziamento va inoltre esteso al dott. Giuseppe Lanza, sempre attento e pronto ad intervenire con il proprio aiuto in occasioni che riguardano la salvaguardia dell’identità culturale del proprio territorio.
Il Sahara era verde e popolato: la storia dell’evoluzione umana raccontata dal genoma
Il Sahara era verde e popolato: la storia dell’evoluzione umana raccontata dal genoma
Un gruppo di ricerca internazionale coordinato dalla Sapienza, ha utilizzato una tecnica innovativa di sequenziamento del Dna per ricostruire l’evoluzione della specie umana all’interno del continente africano. I risultati sono pubblicati su Genome Biology
La storia dei movimenti umani attraverso il Sahara, è racchiusa non solo nei reperti archeologici riconducibili ad antichi insediamenti sahariani, ma anche nel nostro genoma.
Questa nuova prospettiva, che finora non era mai stata analizzata, è stata adottata dal team di ricerca internazionale coordinato da Fulvio Cruciani del Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza di Roma, evidenziando che il pool genetico maschile di popolazioni nord-africane e sub-sahariane è stato plasmato da antiche migrazioni umane trans-sahariane.
Lo studio, pubblicato dal gruppo sulla rivista Genome Biology, costituisce un importante contributo al progresso conoscitivo sull’evoluzione umana e in particolare sul ruolo del cosiddetto “Green Sahara” nel popolamento dell’Africa.
Durante l’optimum climatico dell’Olocene (tra 12 mila e 5 mila anni fa), il Sahara era una terra fertile (da cui “Green Sahara”) e dunque non rappresentava una barriera geografica per eventuali sposamenti umani tra l’Africa sub-sahariana e le coste mediterranee del continente. Per analizzare il popolamento di questa regione i ricercatori si sono avvalsi di una tecnica innovativa (next-generation sequencing) per sequenziare circa 3,3 milioni di basi del cromosoma Y umano in 104 individui maschi, selezionati mediante uno screening di migliaia di campioni.
Lo studio della distribuzione geografica dei diversi cromosomi Y permette di fare inferenze riguardo eventuali eventi demografici del passato a carico della nostra specie. Mediante questa analisi, sono state individuate 5966 varianti geniche (di cui il 51% mai descritte in precedenza). Studiando la variabilità genetica di queste varianti in 145 popolazioni africane ed eurasiatiche è stato possibile evidenziare massicce migrazioni umane avvenute sia attraverso il deserto del Sahara (prima della desertificazione) che attraverso il bacino del Mediterraneo.
“Il cromosoma Y – precisa Eugenia D’Atanasio, primo autore condiviso della ricerca – viene trasmesso dal padre ai soli figli maschi, fornendo quindi una prospettiva solo “al maschile” dell’evoluzione umana recente. Il confronto dei dati dell’Y con quelli relativi al DNA mitocondriale (trasmesso lungo la linea materna) e agli autosomi (trasmessi da entrambi i genitori) ha evidenziato differenze dei due sessi nel plasmare la variabilità genetica del Nord Africa, con un contributo femminile recente riconducibile alla tratta araba degli schiavi e un contributo maschile più antico, che risale principalmente al periodo del “Green Sahara”.
“Questa analisi – aggiunge Beniamino Trombetta, co-autore della ricerca – ha anche evidenziato massicci spostamenti avvenuti attraverso il bacino del Mediterraneo, che hanno coinvolto antichi movimenti di popolazioni umane dall’Europa all’Africa e viceversa, mostrando come i contatti tra queste due regioni siano sempre avvenuti fin dai tempi preistorici”.
In questo studio, per la prima volta, si trova la traccia genetica di migrazioni umane trans-sahariane che erano state sino a ora ipotizzate soltanto mediante l’analisi di cultura materiale. Gli scenari proposti contribuiscono a una migliore comprensione dell’evoluzione umana recente e aprono la strada a nuove linee di ricerca riguardo la nostra storia. Leggere di più
Etiopia: orme di un bambino di 700 mila anni fa a Gombore II-2
Il ritrovamento eccezionale ha pochissimi precedenti: i siti con impronte umane più antichi di 300.000 anni si contano nel mondo sulle dita di una sola mano

I siti con impronte umane più antichi di 300.000 anni si contano nel mondo sulle dita di una sola mano e anche per questo la recente scoperta in Etiopia aumenta in modo significativo le nostre conoscenze.
Si tratta di un livello improntato, perfettamente datato, perché direttamente coperto da un tufo vulcanico di 700.000 anni fa, di Gombore II-2 sito che è parte di Melka Kunture, una località dell’alto bacino del fiume Awash, a 2.000m slm. Qui da anni si svolgono le campagne di ricerca di uno dei Grandi scavi di ateneo, finanziato da Sapienza e dal Ministero Affari Esteri.

La zona scavata corrisponde ad un’area intensamente frequentata, ai margini di una piccola pozza d'acqua in cui probabilmente si abbeveravano, oltre agli ominidi, anche animali prossimi agli attuali gnu e gazzelle, nonché uccellini, equidi e suidi; anche gli ippopotami hanno lasciato tracce dei loro passaggi.
Le impronte delle varie specie si intersecano tra di loro, e si sovrappongono a tratti a quelle degli esseri umani, individui in parte adulti e in parte di 1, 2 e 3 anni. In particolare uno di questi bambini in tenera età propriamente non camminava, ma era in piedi e si dondolava: la sua è l'impronta di un piede che calpesta ripetutamente il suolo, rimanendo appoggiato sui talloni. Ha quindi lasciato impressa una serie di piccole dita (più di cinque) in parte sovrapposte dalla ripetizione del movimento.

“È stata un’emozione molto intensa” spiega Flavio Altamura, il giovane il giovane dottore di ricerca, prima firma dell’articolo appena uscito sugli Scientific Reports di Nature, a cui si deve la scoperta a cui si deve la scoperta delle orme dei bambini “A Gombore II-2 abbiamo quanto possa esistere di più simile ad una “foto di vita preistorica”. Si può quasi dire che qui abbiamo, 700.000 anni fa, "i primi passi di un bambino", mentre il resto del gruppo ed altri piccoli si dedicavano alle attività quotidiane”.
Il sito infatti conserva traccia di una serie completa di attività: scheggiatura della pietra (ossidiana e altre rocce vulcaniche) con la produzione di strumenti litici, e macellazione della carne di più ippopotami. C'erano dei carnivori, ma sono venuti solo dopo a cibarsi dei resti lasciati dagli ominidi. Infatti, i morsi dei carnivori sulle ossa si sovrappongono alle tracce lasciate precedentemente dagli strumenti di pietra che avevano tagliato la carne. Quindi il gruppo umano era in pieno controllo dell’ambiente.
“Gombore II-2 è importante non solo perché sono rari i siti con impronte umane, ma perché per la prima volta non abbiamo un semplice "percorso nel paesaggio", come a Laetoli, per esempio, ma invece un sito archeologico in cui sono documentate le attività quotidiane nel loro insieme” spiega Margherita Mussi, coordinatrice dello scavo – “Inoltre, per la prima volta ci sono impronte di bambini molto piccoli, che indicano la loro presenza costante anche quando gli adulti scheggiavano e macellavano. Sappiamo anche di che specie di ominide si tratta, perché resti fossili di Homo heidelbergensis – l’antenato comune nostro e dei Neandertaliani - sono stati trovati a breve distanza, ma in un livello archeologico più antico, risalente a 850.000 anni fa”.
La ricerca, coordinata da Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’antichità è frutto degli scavi condotti da laureandi e dottorandi del Dipartimento stesso. In particolare, la scoperta è opera del primo firmatario dell’articolo appena pubblicato sull’argomento, Flavio Altamura, che su questa ha svolto il suo progetto di dottorato in Archeologia. Lo studio delle impronte è frutto di una cooperazione scientifica a livello nazionale e internazionale. Leggere di più