La poesia dei finali: Ararat di Louise Glück
Le perdite che inaridiscono, quelle che rendono impenetrabili, sono ferite che il tempo non sa cicatrizzare, tagli o lesioni immedicabili che, mentre sanguinano, ribadiscono spietatamente la nostra vulnerabilità senza scampo. È ingenuo chiedere alla poesia di fungere da balsamo, di rimarginare gli squarci del nostro vissuto e, da sola, sovrintendere alla cura; ma se non è lecito cercare consolazione nei versi, è doveroso riconoscerne l’intima natura di gesto creativo, di linguaggio che, se pure addolora, immancabilmente genera conoscenza.
Poesia come strumento di indagine del sé e del mondo: è questa la chiave della ricerca letteraria del Premio Nobel Louise Glück, che all’esperienza totalizzante del verso non chiede sollievo né conforto, ma la possibilità di lasciar emergere l’invisibile e di dargli un nome. In Ararat, silloge del 1990 appena pubblicata da il Saggiatore con la meritoria traduzione di Bianca Tarozzi, l’autrice risignifica perdite e assenze private (la morte del padre e della sorella, il gelo che riecheggia nei silenzi della famiglia) riuscendo a conferire loro carattere di universalità: ricordi, frammenti, dettagli si emancipano dalla vicenda particolare e divengono, per chi legge, simboli attraverso i quali riannodare i fili della propria esistenza.
Quasi obbedendo alle leggi del pensiero magico, la poesia si fa qui linguaggio sacro grazie al quale nominare una fine equivale a rendersi conto di una contemporanea, e conseguente, nascita: essere privati di una presenza implica infatti un nuovo cominciamento, un inedito modo di vedere le cose, l’esordio di un altro sé. La voce di Glück in questo senso assomiglia a quella dell’angelo caduto che parla dal fondo della sua consapevolezza. E se anche il trascorrere del tempo distorce il passato, se anche i nodi negli anni si stringono fino a farsi insolubili, è inderogabile l’urgenza di indagare gli abissi del proprio turbamento, ascoltare il pianto antico del proprio sé bambino, accarezzare con compassione gli errori di chi si ama.
Nel racconto del mito, è il vuoto lasciato da Euridice a determinare, per Orfeo, la possibilità del canto; allo stesso modo, nei versi di Ararat, la pienezza della parola risuona di ciò che Glück ha irrimediabilmente perduto nella sua privata vicenda esistenziale. Ma, se la vita le ha imposto solitudini e mancanze, la scrittura le ha concesso di abitare uno spazio interiore, in cui poter accogliere l’infinito e l’intangibile e tradurre questo silenzio sacro, originale, ineffabile in testimonianza che è lecito pronunciare e condividere.
Questa silloge che conduce nei dedali del lutto non indulge mai ai toni dell’elegia e del lamento, e, se pure l’io poetante contempla con distacco persone e ricordi, l’impressione che se ne ricava non è affatto cupa o angosciante: l’attraversamento che incoraggia, anzi, conserva in una certa misura un senso di timida fiducia, che deriva forse dal perdono. D’altro canto, il titolo, pur facendo riferimento al nome del cimitero di Long Island in cui riposa il padre dell’autrice, inevitabilmente proietta l’allusione biblica al monte di Noè, quello dal quale, dopo il diluvio, la vita poté ricominciare. Ancora una volta, alla minaccia di una fine fa da controcanto un impensabile esordio.
Il mito, la classicità, la tradizione, pur non essendo protagonisti della raccolta, come accade invece in altri lavori di Glück, costituiscono il sostrato poetico e metaforico su cui poggiano l’intero discorso e l’ispirazione stessa dell’autrice. Nei titoli, nei modelli, fin nel modo di intendere la poesia, per la poetessa statunitense il passato greco-romano e quello ebraico si configurano come motore letterario in grado di innescare un movimento, come faro in grado di indicare una possibile via. La foresta di simboli dell’antico risuona qui di rumori altri, della ninnananna materna, di risate lontane e di oggetti che si rompono: dettagli dimenticabili che dicono di noi. Anche così quest’immaginario si compone di continue discese e risalite, come le nostre piccole esistenze, che accanto ad attimi altissimi di assoluto, contemplano precipizi altrettanto vertiginosi. Ararat è un libro per chi non ha paura di stare sulla soglia dei propri abissi.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.