L’ARTE DEL SORRISO.
LA CARICATURA A ROMA DAL SEICENTO AL 1849
Museo di Roma Palazzo Braschi
9 giugno – 2 ottobre 2016
Sarti, cappellaie e rammendatrici di calze, accanto a soffiatori di vetro, burattinai e musicisti. Ma anche servitori gobbi che fanno bella mostra di sé a fianco a personaggi del calibro di papa Benedetto XIV e del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, immortalati nel celebre quadro di Giovanni Paolo Pannini.
Sono le 120 opere esposte nella mostra L’Arte del sorriso. La caricatura a Roma dal Seicento al 1849, al Museo di Roma dal 9 giugno al 2 ottobre 2016, e provenienti da diverse istituzioni culturali (Palazzo Chigi di Ariccia, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio Storico Capitolino, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Istituto Centrale per la Grafica di Roma, Museo del Risorgimento di Roma e la Collezione d’Arte della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca) oltre che dal Gabinetto delle Stampe di Palazzo Braschi.
L’esposizione, promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è a cura di Angela Maria D’Amelio, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Simonetta Tozzi, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura. Catalogo a cura di Campisano Editore.
A lungo ritenuta un genere minore, la caricatura è tuttavia presente nella produzione di molti grandi artisti, da Leonardo ad Annibale Carracci, a Gian Lorenzo Bernini che per molti aspetti è considerato il vero iniziatore di questo peculiare tipo di ritratto irriverente. Ma è solo nel Settecento che l’arte della caricatura, forma artistica affidata quasi esclusivamente al disegno, ha iniziato ad affermarsi acquisendo una sempre maggiore impostazione intellettualistica.
Come già nel secolo precedente, la caricatura a Roma nel XVIII secolo mirava a ‘colpire’ non la collettività ma il singolo personaggio, com’è evidente nella prolifica produzione di Pier Leone Ghezzi (1674-1755), protagonista indiscusso di questo genere, soprannominato il ‘Cavaliere delle caricature’ per la sua abilità nel ritrarre con arguzia natura e costumi degli uomini di ogni ceto sociale.
Altro magnifico interprete fu l’architetto pontificio Carlo Marchionni (1702-1786) che, con la sua penna bonaria, si dedicò alla caricatura per svago e diletto ma con grande qualità grafica e profondità d’introspezione psicologica. Anche un suo allievo, Giuseppe Barberi (1746-1809), coltiverà assiduamente questo genere parallelamente alla quotidiana attività di architetto raffigurando, oltre i membri della propria famiglia, molteplici personaggi tra nobili, intellettuali, diplomatici, collezionisti, prelati, artigiani e venditori ambulanti.
Con differente stile i tre artisti ci offrono una capillare e sagace cronaca della loro epoca non solo attraverso le caricature ma anche, e soprattutto, con le annotazioni manoscritte poste a margine dei disegni, relative alla vita pubblica e privata dei personaggi ritratti. Una sorta di “diari figurati” che, con le loro microstorie, ci regalano uno spaccato sociale assolutamente inconsueto e affascinante.
Con la fine del Settecento si conclude la fortunata stagione della caricatura a Roma, gradualmente soppiantata dalla vignetta satirica quale illustrazione di una stampa politica e strumento di critica sociale. Sull’esempio dei primi due giornali satirici francesi La Caricature (1830-35) e Le Chiarivari (1832-93) – entrambi fondati a Parigi da Charles Philipon e aperti alla collaborazione di disegnatori quali Honoré Daumier, Grandville, Paul Gavarni – a Roma ne nascono molti simili, tra i quali spicca il notissimo Don Pirlone. Di stampo socialista e anticlericale, esso abbandona definitivamente il tono indulgente della caricatura settecentesca per uno assai più immediato e incisivo, di forte impegno civile.
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Mostra Dove |
L’ARTE DEL SORRISO. LA CARICATURA A ROMA DAL SEICENTO AL 1849 Museo di Roma Palazzo Braschi (Sale espositive del primo piano) Ingresso da Piazza Navona, 2 e da Piazza San Pantaleo, 10 |
Quando | 9 giugno – 2 ottobre 2016 |
Inaugurazione Orari Biglietteria |
8 giugno 2016 ore 18.00 Dal martedì alla domenica Dalle ore 10.00 – 19.00; la biglietteria chiude alle 18.00. Giorni di chiusura Lunedì; Chiuso il 1 maggio biglietto unico Museo e Mostre per non residenti € 11,00 intero e € 9,00 ridotto; biglietto unico Museo e Mostra per residenti € 10,00 intero e € 8,00 ridotto; Gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente. |
Promotori Con la collaborazione di Media Partner Organizzazione Catalogo Mostra e catalogo a cura di Info mostra |
Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali MasterCard Priceless Rome Il Messaggero Zètema Progetto Cultura Srl Campisano Editore Angela Maria D’Amelio Simonetta Prosperi Valenti Rodinò Simonetta Tozzi Tel 06 06 08 (tutti i giorni ore 9.00 – 21.00) |
SCHEDA INFO
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SEZIONI MOSTRA
INTRODUZIONE
La caricatura fu utilizzata da artisti e dilettanti d’ogni tempo per mettere in ridicolo sia uomini insigni che gente comune. Tale produzione, a torto considerata minore, nonostante venga praticata da personaggi di alto livello qualitativo come Leonardo, Annibale Carracci, Gian Lorenzo Bernini, il vero iniziatore di tale genere artistico, si affermerà soltanto nel Settecento.
Similmente al secolo precedente, la peculiarità della caricatura a Roma nel XVIII secolo fu quella di ‘colpire’ non la collettività ma il singolo personaggio, come si evince dalla prolifica produzione di Pier Leone Ghezzi, Carlo Marchionni e Giuseppe Barberi i cui disegni, tutti conservati presso il Museo di Roma, costituiscono il nucleo più cospicuo e prezioso dell’intera mostra.
Con differente felicità espressiva i tre artisti ci offrono una sagace cronaca della loro epoca sia attraverso i ritratti caricati di molteplici personaggi che mediante le glosse manoscritte in calce, a loro relative; una sorta di “diari figurati” che ci regalano uno spaccato sociale inconsueto e affascinante.
Con la fine del secolo si conclude la fortunata stagione della caricatura a Roma, gradualmente soppiantata dalla vignetta satirica quale strumento di critica sociale. Sull’esempio dei primi mordaci giornali francesi, a Roma ne nascono molti del genere, tra i quali spicca il notissimo Don Pirlone, di stampo socialista e anticlericale.
SEICENTO
Il vero padre del genere caricaturale fu Gian Lorenzo Bernini, che con la sua penna arguta si divertì a ritrarre i personaggi più in vista del tempo caricandone i difetti in modo tale da renderli immediatamente riconoscibili, ma anche inconfondibilmente ridicoli nella loro deformazione.
Al modello berniniano, ancorato alla visione del singolo personaggio, si attennero molti altri artisti a Roma che praticarono questo genere, quali Giovan Battista Gaulli, Ciro Ferri, Pietro de’ Rossi, Pierfrancesco Mola nonché Carlo Maratti, il quale si dedicò a disegnare ‘teste caricate’ nel periodo della sua maturità, più studi sulla fisiognomica umana che vere e proprie caricature.
E’ noto, infatti, che la teoria classicista aveva assolto tale genere sia perché iniziato da Annibale Carracci e praticato dal Domenichino, sia perché intendeva l’arte mimesis, ovvero imitazione della natura, dove l’artista interviene per cercare non il bello ideale, ma la ‘bellezza della deformità’.
SETTECENTO
Artisti, ecclesiastici, aristocratici e gentiluomini
Pier Leone Ghezzi, Carlo Marchionni e Giuseppe Barberi raffigurano, in modo acuto e brillante, natura e costumi degli uomini di ogni ceto sociale del cosmopolita clima cittadino. Nobili, prelati, artisti, popolo minuto sono i protagonisti di questa sezione espositiva, il cui ritratto caricato viene spesso affiancato a quello ufficiale, in modo che dal confronto risulti evidente come il ‘volto comico’ diventi in questo secolo l’alter ego di quello ‘sublime’, capace di svelare i lati nascosti del carattere dell’effigiato, laddove il ritratto aulico celebra e induce all’apprezzamento.
Adottando un tono bonario, lontano da quello mordace della satira di ambito europeo, i tre artisti ci regalano una divertente ed esaustiva panoramica sulla società dell’epoca sia mediante i ritratti che le puntuali annotazioni che li accompagnano, facendo sì che una gran quantità di notizie eterogenee vadano ad arricchire biografie di personaggi già noti e, soprattutto, se ne conoscano altre trascorse più o meno anonime.
SETTECENTO
La moda e i suoi mestieri
La sensibilità di Giuseppe Barberi nel cogliere i caratteri individuali si manifesta anche nella puntuale registrazione delle fogge dell’abbigliamento: dagli abiti di gala di nobili e aristocratici, alle vesti di lavandaie, sarte, operai, artigiani e venditori diversi che spesso indossano i costumi popolari dei luoghi di provenienza.
Barberi dedica tuttavia un’attenzione particolare agli abiti e alle acconciature ostentati nella vita di società dai personaggi femminili più in vista. Nel corso di circa venti anni descrive l’evoluzione del costume interpretando le sue bizzarrie con lo stesso spirito affascinato e ironico che ispirava l’illustrazione della moda nella contemporanea stampa francese e inglese.
Gli abiti esposti della collezione del Museo di Roma testimoniano la fedeltà dell’artista nell’interpretare la linea dei modelli e le decorazioni dei vestiti indossati dai protagonisti delle sue icastiche scenette.
SETTECENTO
Popolo minuto, mestieri, luoghi di intrattenimento
Numerosi sono i disegni che ritraggono il composito microcosmo cittadino, caratterizzato da una infinità di gente minuta appartenente alle categorie sociali più basse, all’epoca una fetta considerevole della popolazione.
Alcuni personaggi, quali nani e storpi vengono ritratti senza alcuna intenzione moraleggiante e la loro figura, anziché suscitare commiserazione o pietà diventa oggetto di scherno, magari bonario e affettuoso. Grande attenzione è poi rivolta ai numerosi mercanti e venditori ambulanti, che si potevano incontrare quotidianamente sia per le strade che nei grandi poli commerciali. Tra i molti aspetti della vita sociale e culturale dell’epoca un posto di rilievo lo occupano il teatro e il mondo dello spettacolo, che Ghezzi, Marchionni e Barberi frequentano e per diletto e per motivi professionali. I primi due dedicano, inoltre, molte caricature alla popolare maschera di Pulcinella, la cui fortuna si deve anche e soprattutto alle sue connessioni con il teatro.
OTTOCENTO
Sull’esempio dei primi giornali satirici francesi, come Le Chiarivari, intorno al 1848, in coincidenza con i moti rivoluzionari in Italia e, in particolare, a Roma viene fondato un gran numero di riviste di questo tipo, tra le quali il notissimo Don Pirlone, di stampo socialista e anticlericale, che abbandona definitivamente il tono indulgente della caricatura settecentesca per uno stile più incisivo, di forte impegno civile.
In questa sala sono esposti alcuni disegni e incisioni di satira politica e di costume che offrono uno spaccato ‘caricato’ della società romana tra il primo e il secondo quarto del XIX secolo. Tra scene di caffè e teatri, parodie di maestri e scolari, liti tra archeologi alle prese con gli scavi al Colosseo spiccano i gustosi acquerelli di Lindström, artista svedese, dedicati a Bartolomeo Pinelli e ai pittori stranieri residenti all’epoca a Roma.
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SEICENTO
SCHEDE OPERE (* immagine nel CD)
Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598-Roma 1680), replica di bottega
Caricatura di un Cavaliere francese e del cardinal Giacomo Filippo Nini, seconda metà del secolo XVII
penna e inchiostro bruno, mm 180 x 220; provenienza: priore Francesco Renzi (?), cardinal Gualtieri, cardinal Corsini, proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei in deposito all’Istituto Centrale per la Grafica.
Roma, Istituto Centrale per la Grafica, inv. FC127524.
Iscrizione: “un Cavalier francese Il Card.le Nini”
In basse alle iscrizioni antiche, poste sopra i disegni, è possibile identificare i personaggi raffigurati in questa caricatura: si tratta di un non meglio specificato Cavalier francese a sinistra e a destra il cardinal Giacomo Filippo Nini (1628-1680), noto collezionista di origine senese legato al cardinal Flavio Chigi, poi papa Alessandro VII, personalità assai presente nell’ambiente artistico romano della metà del Seicento (cfr. Robibaro 2010, pp. 331-407). L’autore della caricatura ne mette esageratamente in risalto la risata che evidenzia tutti i denti, probabile difetto fisico del cardinale. Come per la maggior parte delle caricature di ambito Berniniano, sia quelle conservate nel volume Chigi della Biblioteca apostolica Vaticana, che quelle del nucleo dell’Istituto Centrale per la Grafica, qui esposte, la critica propende nel ritenerle copie o repliche eseguite nella bottega, a cominciare dal Brauer-Wittkower, alla Sutherland Harris, a Gobbi, mentre Grassi, Wallace e Martinelli vi riconoscevano la mano autografa del grande artista.
Bibliografia: Brauer, Wittkower 1931, p. 183; Rubiu 1973, p. 72, n. 22; Robibaro 2010, p. 337, fig. 11, p. 404; Gobbi 2015, p. 521, nota 9. (SPVR)
Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio (Genova 1639-Roma 1709)
Caricatura di Mario de’ Fiori, 1666
penna e inchiostro bruno, mm 270 x 200
provenienza: acquisto Luzzietti, 1913, Roma, Istituto Centrale per la Grafica, inv. FN 74 (15508)
Iscrizione: a penna nel verso (di Sebastiano Resta?): “Caricatura di Mario de’ Fiori fatta da Baciccia a di 25 agosto 1666”
Considerato da tutti i critici concordemente come la più sicura caricatura autografa del Baciccio, lo schizzo presenta un forte influsso del Bernini nel segno libero ed essenziale della penna, nella capacità di cogliere i tratti salienti del personaggio ritratto, mettendoli in ridicolo, proprio come aveva fatto il grande scultore nei suoi schizzi a penna di papi, cardinali e personaggi altolocati della società romana del suo tempo. Risulta accettabile per motivi stilistici la data all’anno 1666, scritta nel verso forse dal collezionista seicentesco Sebastiano Resta (1635-1714), e non dall’autore, come creduto sinora (Fusconi 1980, p. 35).
In base alla scritta, il disegno è stato accettato come caricatura del pittore Mario Nuzzi detto Mario de’ Fiori, che doveva il suo soprannome al fatto di essere specializzato nel dipingere tele con fiori e decorazioni floreali nella Roma del Seicento. Secondo le fonti biografiche dell’epoca, è nota l’amicizia tra i due pittori: Nuzzi aiutò il giovane Gaulli appena giunto da Genova a Roma ad introdursi nel difficile mondo di committenti e artisti della città eterna. Un confronto con il dipinto celebrativo del Nuzzi, realizzato da Giovanni Maria Morandi e conservato a Palazzo Chigi ad Ariccia, conferma l’identità del personaggio raffigurato: vi ritroviamo, seppure meno esagerati, i tratti fisionomici dell’artista, con gran naso, mento sfuggente e fronte spaziosa, mentre non emergono ovviamente l’aspetto ridicolo dovuto alla sua bassa statura e il modo ricercato nel vestire.
Bibliografia: Brauer, Wittkower 1931, p. 183, nota 1; Brugnoli 1956, p. 31; MacAndrew 1972, p. 111, fig. 8; Graf 1976, cat. 510; Fusconi 1980, cat. 32; Prosperi Valenti Rodinò 1995, cat. 60; Prosperi Valenti Rodinò 2009, p. 260, nota 8. (SPVR)
Ambito romano del secolo XVII
Caricatura di tre personaggi con uccelli posati sulla testa, 1670-1680
penna e inchiostro bruno, mm 224×223; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe, inv. MR 16894
Iscrizione: “Vino Confetti, e Gileppe”
Il disegno raffigura tre personaggi in abiti seicenteschi, forse amici tra di loro, due dei quali affrontati e uno visibile al centro, ognuno dei quali ha un uccello diverso, posato sulla testa. In base alla scritta, apposta in basso e forse da considerare autografa dell’autore dello schizzo, Vino Confetti, e Gileppe, sembra che si tratti di uno scherzo grafico, una sorta di divertissement fra amici, che vogliono raffigurarsi in questo foglio, dopo una bisbocciata a base di dolci – confetti e conserve candite, appunto, innaffiate da un buon vino – a ricordo di una situazione particolare, che oggi sfugge completamente alla nostra analisi. Anche gli uccelli, riconoscibili forse in un gufo, una cicogna e un pellicano, sembrano alludere a qualità o difetti del personaggio sottostante.
Se resta ancora oscura l’identità dei personaggi raffigurati, altrettanto problematica è l’attribuzione del foglio, entrato nelle raccolte comunali con il riferimento a Maria Luisa Muñoz, che in base agli abiti e alle pettinature delle tre comparse, potrebbe essere datato alla seconda metà del Seicento. Lo stile, nel segno a penna vivace e graffiante, presenta affinità con quello di Salvator Rosa, anche se lo schizzo non ha completamente i caratteri della grafica riconoscibile del pittore napoletano, attivo tra Firenze e Roma. Rientra però nei comportamenti del Rosa, così come di un altro disegnatore romano, Pier Francesco Mola, autore di vignette autobiografiche a sfondo caricaturale, l’abitudine a ritrarsi in schizzi riferiti a episodi e situazioni vissute insieme ad amici e compagni di gozzoviglie.
Bibliografia: inedito. (SPVR)
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SETTECENTO
SCHEDE OPERE (* immagine nel CD)
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
Autoritratto, 1747 (*)
penna, mm 346×255; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 16749
Iscrizione: “Caricatura di me med.mo cav.re Ghezzi vedutomi nello specchio in atto di disegnare qualche altra persona, nella mia età di anni 73, delli 16 Febbraro 1747”.
L’autore in questo foglio si raffigura settantatreenne ma ancora molto attivo, “in atto di disegnare qualche altra persona”, e cioè intento nell’attività ritrattistica che diventerà centrale nell’ultimo periodo della sua vita lavorativa. Insieme agli autoritratti dipinti egli ne eseguì anche molti caricati, oggi conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi, nella Biblioteca della Valletta a Malta e presso l’Istituto Centrale della Grafica, nel cui ultimo foglio lo troviamo ormai anziano e stanco, con la vecchia parrucca, in atto di prendere del tabacco da una scatola. In linea con l’esigenza realistica e la volontà di documentare un’epoca attraverso una moltitudine di personaggi, Ghezzi utilizza anche per la sua, come per tutte le altre caricature, un occhio distaccato, studiandosi “nello specchio” e ritraendosi, con il passare del tempo, in modo sempre più essenziale, privo di inutili ornamenti.
Bibliografia: Incisa della Rocchetta 1964, p. 18; Lo Bianco 1999, pp. 182-187 n. 63. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Autoritratto, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-57
Iscrizione: “Questo e fatto per il Signor Bartolomeo Molatti Segnato il di 15 ottobre 1793 di ricordo che per le buone nove avute tutti in un tempo fui assalito dal mal di orina che il di 12 detto, stetti 4 ore senzza poter orinare, oltre li altri replicati insulti le buone furono queste il figlio Paolo Emilio arrestato in Firenze; Il funerale che doveo fare a S. Luigi dè Francesi per la morte di Luigi XIV che non lo feci per l’inganni del A.te Dalestangie, ero senzza denari ne domandai al Principe Altieri al quale e mio debbitore di z. 5000 pari li miei debbiti, e con tutto il male mi negò cento doppie e doppo che li ò fatto l’appartamento per il figlio D. Paluzzo, che a sposato questa matina in casa Barberini, la figlia del Principe Saverio; l’altra buona nuova che e in pericolo parte di un credito di z. 1600 e però non ho pisciato, ogniuno impari”.
Barberi si ritrae in questo disegno con una lettera in mano, e con un’espressione quasi disperata, quale postulante presso un tale Bartolomeo Monaldi a Firenze, dove il figlio Paolo Emilio è stato arrestato per motivi politici. Nella glossa, oltre a informarci circa il suo assillante problema di salute, l’architetto riporta anche due “buone nuove”: un credito non saldato da parte di Emilio Altieri per i lavori nella dimora a piazza del Gesù, diretti da Barberi fino al 1793 e per i quali recluta molti importanti artisti romani e stranieri, e la mancata commissione del catafalco per i funerali di Luigi XVI – alla cui realizzazione avrebbe dovuto partecipare anche Vincenzo Pacetti – e mai eseguito a motivo de “l’inganni” de l’abate Carlo de Lestache, amministratore della chiesa di San Luigi dei Francesi.
Bibliografia: Debenedetti (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Vincenzo Pacetti, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 275×195, provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-9
Iscrizione: “Questo è il birbissimo Sig. Pacetti scultore il quale doppo che dal essere un povero omo gli diedi tanti lavori che furono bastanti di farsi 17 lochi di Monti mi disse di faccia che non avevo fatto niente per lui. Segnato il 24 agosto 1777, lo affermo per birbo”.
Il personaggio ritratto in questo e in altri fogli è Vincenzo Pacetti (1746 ca.-1820) scultore, collezionista nonché restauratore di statue classiche. In qualità di scultore indipendente viene ammesso all’Accademia di San Luca, di cui è principe tra il 1796 e il 1801, e Bartolomeo Cavaceppi lo nomina esecutore delle sue volontà. L’artista lavora a Villa Borghese negli anni 1782-1785 e a palazzo Altieri chiamato dallo stesso Barberi il quale, nell’iscrizione a margine del foglio, lo definisce “birbo” in quanto reputa di non aver ricevuto un’adeguata riconoscenza per i numerosi e ben pagati incarichi che gli ha procurato negli anni e, forse, anche in riferimento alla sua non sempre limpida attività di mercante e procacciatore di materiale archeologico. Incontratisi probabilmente nel 1762, in occasione dei Concorsi Clementini, gli artisti avranno modo di approfondire la reciproca conoscenza grazie alle comuni esperienze di Accademici di San Luca, di Arcadi, di giacobini e ai lavori condivisi. Quella tra i due si rivelerà un’amicizia profonda e duratura che coinvolgerà anche i membri delle rispettive famiglie – lo scultore terrà a battesimo Paolo Emilio Barberi, intercederà presso Agostino Tofanelli affinché lo prenda nel proprio studio e darà lezioni di disegno a Leone, un altro dei nove figli dell’architetto – e li vedrà spesso in soccorso l’uno dell’altro; sarà Pacetti, infatti, a correre al capezzale dell’amico in punto di morte.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 200 n. 4; D’Amelio 2010, p. 85; Cipriani, Fusconi, Gasparri, Picozzi, Pirzio Biroli Stefanelli 2011, p. VI; D’Amelio 2016, in corso di stampa. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Giuseppe Valadier, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-90
Iscrizione: “Questo è il figlio del fu Mae. Luiggi Valadier valentomo che si buttò a fiume, per disperazione di interesse, il figlio li e saltato in testa di far darchitetto ed è sinora l’autore delli quattro orologgi posti al Vaticano; però, quelli interni io li levai di testa di metterli nel fregio del ordine con due putti volanti che li reggessero e l’obligai di collocarli ove si trovano giacchè si sono voluti mettere. Segato il di 14 Dicembre 1793”.
In questo foglio l’artista ritrae in caricatura Giuseppe Valadier (1762-1839), talentuoso architetto, restauratore di monumenti antichi nonché scalpellino e muratore. Questa poliedrica formazione, dovuta all’apprendistato presso la bottega orafa del padre Luigi, gli consente di comprendere appieno i vari aspetti sia di un edificio che di un progetto urbanistico, dall’idealizzazione alla sua realizzazione, permettendogli di raggiungere altissimi risultati. E sempre grazie al padre, grande amico di Pio VI, ottiene neppure ventenne il prestigioso titolo di architetto dei Sacri Palazzi. Nell’annotazione che accompagna il disegno Luigi Valadier viene ricordato da Barberi come “valentomo che si buttò a fiume”, ricordando la sua tragica fine avvenuta nel 1785, quando a causa o di una disastrosa situazione economica o della paura di un insuccesso riguardante la lavorazione del campanone di San Pietro, si suicidò gettandosi nel Tevere. Tanta era la stima che Barberi nutriva per lui quanto pochissima per il figlio, riguardo il quale dice di non capire come gli sia “saltato in testa di far darchitetto”, riferendosi agli orologi progettati per i lati della fronte esterna e della controfacciata della Basilica Vaticana, dei quali il nostro ne sconsiglia la collocazione nel fregio dell’ordine facendoli, invece, collocare sul prospetto interno del muro, ai lati dello stemma di Benedetto XIV.
Bibliografia: D’Amelio 2010, p. 101; eadem, in corso di stampa. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Teresa Bandettini, 1794 (*)
penna e acquerello, mm 275×205; provenienza: acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-48
Iscrizione: “Così era vestita che pareva la Musa Clio”/ “Questa è la poetessa cioè la Bandettini che improvvisò la sera del di 18 aprile 1794 in Archadia di Venerdi Santo a sera sopra li temi dati il primo Gerusalemme distrutta, il secondo la figlia di Jetro condotta a morte il terzo la Madonna addolorata, il quarto il convitto di Baldassarre, che disse benissimo”.
La donna raffigurata in questo foglio è la nota poetessa Teresa Bandettini (1763-1837) che iniziò a scrivere versi giovanissima, a soli sette anni, trasgredendo agli ordini della madre, che la voleva ballerina, mestiere che continuò ad esercitare a lungo e che le procurò il soprannome di Ballerina Letterata. Nel 1789, dopo aver incontrato e subito sposato Pietro Landucci, decise di abbandonare, dietro sollecitazione di quest’ultimo, la carriera di danzatrice per affinare l’arte dell’improvvisazione, di cui divenne maestra, riscuotendo le lodi di Vittorio Alfieri, di Giuseppe Parini e di Vincenzo Monti. Tra le sue molteplici esibizioni, rimase famosa una a Roma dove, per ben otto volte, propose sempre lo stesso tema ma ogni volta con un metro diverso. Entrò a far parte dell’Accademia dell’Arcadia con il nome di Amarilli Etrusca e si cimentò anche nella redazione di alcuni poemi, La morte di Adone e La Teseide, e di due volumi di Poesie varie.
Barberi la ritrae proprio durante una sua esibizione, la sera del 18 aprile 1794, in una posa e un abbigliamento straordinariamente simili a quelli del ritratto eseguito, un anno dopo, da Angelica Kauffmann su commissione della stessa Bandettini.
Bibliografia: D’Amelio 2010, pp. 101-102. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Signora Pomponi, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-12
Iscrizione: “Questa è la sorella della ragazza del Signor Pavolo Baggilli chiamata la Sig Pomponi segnata quando veniva alla novena di Natale l’anno 1777 questa porta una aggiustatura di testa e scuffia che fra tutte è presa di modello dalle ragazze del paese nostro”.
Anche la caricatura della signora Pomponi è un pretesto per raffigurare non tanto il personaggio, piuttosto anonimo in quanto sorella della ragazza di Paolo Bargigli (l’architetto?), quanto piuttosto il suo ricercato abbigliamento e la sua “aggiustatura di testa e scuffia”, cioè la sofisticata parrucca con i relativi elementi decorativi, talmente particolare da essere presa a modello da tutte le ragazze romane.
Bibliografia: D’Amelio 2010, pp. 69-102. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Ignazio Boncompagni Ludovisi, 1788 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-54
Iscrizione: “Questo è il Cardinale Boncompaggi Segretario di Stato, del nostro secolo alla moda e lui lo favorisce benissimo Segnato di ricordo il di 25 ottobre 1788. Che il Bragieraro ecellente mi misse il bragiero novo, e bencaro, perchè due zecchini, farebbe meglio al Signor Cardinale che a me, o da fare quello che non fa lui e allora lui non farebbe quello che fa a tenor del secolo”.
La questione della bonifica padana contribuì a determinare e definire gli orientamenti riformistici di Ignazio Boncompagni (1743-1790), che lo avvicinarono sempre di più ad alcune delle maggiori personalità antigesuitiche della corte, tra le quali il cardinale de Bernis. Dopo una lunga e brillante carriera ecclesiastica egli ricoprì la carica di Segretario di Stato di Pio VI dal 1785 al 1789; fu, inoltre, prefetto delle congregazioni cardinalizie della Sacra Consulta e delle congregazioni di Avignone e di Loreto. In questa caricatura più che il personaggio, ritratto da Barberi ben vestito mentre incede con passo sicuro, risulta particolarmente interessante la glossa che lo definisce un Segretario di Stato perfettamente in linea con il secolo alla moda. L’autore si riferisce probabilmente ai suoi atteggiamenti disinvolti, che potrebbero essere arginati dall’utilizzo di un cinto erniario, appena acquistato a caro prezzo da un braghieraro dallo stesso Barberi per il suo annoso problema di salute, convenendo che starebbe meglio indosso al signor cardinale che a lui, che potrebbe fare liberamente quello che invece fa, in modo sconveniente, il Boncompagni “a tenor di secolo”.
Bibliografia: D’Amelio 2016. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Marianna Altieri e il principe Carlo Emilio Altieri, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 195×274
provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-87
Iscrizione: “Il P.pe Altieri con la Duchessina sua nora che parlano al canapè prima di uscire con D. Paluzzo suo marito Segato il di 11 Dicembre 1793”.
Maria Anna Violante Wettin von der Lausitz, (1770- 1845) viene qui raffigurata in conversazione con il suocero, il principe Carlo Emilio Altieri (1723-1801), di cui ha sposato il figlio Paluzzo con il quale si accinge ad uscire. Nelle cronache dell’epoca si legge che la duchessina era solita vestire in modo ricercato ed elegantissimo e che si recasse ovunque in carrozza, persino alla messa celebrata nella chiesa del Gesù, che si trovava nella stessa piazza del palazzo in cui abitava. I lavori di decorazione della dimora, in occasione delle nozze dei due giovani, furono commissionati dal principe proprio a Barberi, che vi lavora fino al 1793 reclutando molti importanti artisti sia romani che stranieri all’epoca attivi a Roma.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 212 n. 36. (AMD)
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
Domenico Silvio Passionei, 1749 (*)
penna, mm 345×233; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1506
Iscrizione: “Il Sig.r Cardinale Dom.co Passionei che fugge per non incontrarsi con alcuni personaggi che venivano al suo romitorio, 12 7bre 1749”
Il personaggio dei due ritratti, aulico e caricato, è Domenico Silvio Passionei (1682-1761), celebre umanista e bibliofilo e grande appassionato di archeologia classica. La carriera ecclesiastica, che culminò con la nomina cardinalizia nel 1738, lo portò a viaggiare in tutta Europa e soprattutto in Francia e nei Paesi Bassi dove conobbe molte personalità, tra le quali Rousseau e Voltaire, avvicinandosi alle idee gianseniste che lo posero in aperta polemica con l’intera gerarchia ecclesiastica e, in particolare, con l’ordine dei Gesuiti. Nel 1704 fondò il “Circolo del Tamburo”, associazione frequentata dai più importanti intellettuali romani che, a partire dal 1739, cominciarono a riunirsi presso l’eremo di Camaldoli dove il Passionei aveva creato un suo rifugio, da lui stesso definito “romitorio”, nel quale trasferì gran parte della sua ricchissima biblioteca e delle sue collezioni sia di opere antiche che dei più importanti artisti contemporanei. Il luogo divenne talmente noto che, oltre agli amici più stretti del cardinale, iniziarono ad arrivare quotidianamente molti visitatori incuriositi che spesso lo costringevano a defilarsi. Ed è proprio uno di questi momenti in cui Ghezzi, con ironia, lo ritrae di spalle mentre si alza la tonaca per facilitare la repentina fuga.
L’artista dovette assistere più volte alla scena perché, legato da profonda amicizia al Passionei, era spesso suo ospite a Camaldoli nel periodo estivo, durante il quale si divertì a ritrarre sia i numerosi ospiti che tutta la servitù della villa. Del prelato, così come di molti altri personaggi, Ghezzi realizza più di una caricatura tra le quali, nell’album di Fossombrone, se ne conserva una identica a questa esposta in mostra.
Bibliografia: Settecento alla moda 1999, pp. 182-187 n. 63; Dorati da Empoli 2008 p. 279; Dania 2015, pp. 34-35. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Signora Petracchi, 1778 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-24
Iscrizione: “Questa è la Signora … Petracchi. Segnata il di 3 Settembre 1778”.
Le sorelle Petracchi, Maria Teresa, Palmira e Rosalinda, erano conosciute in tutta Roma per la loro bellezza e spregiudicatezza e poiché appartenevano a una delle famiglie più in vista dell’alta borghesia potevano permettersi di ascoltare concerti, di assistere ai fuochi d’artificio dei Due Macelli e di sfoggiare ricercate mises. Più volte immortalate da Vincenzo Monti, le tre donne compaiono anche in un quadro-sonetto della “Galleria del marchese Zagnoni”, descrizione in poesia di una serie di ritratti femminili, satira crudele delle signore più in vista della società romana. Maria Teresa è qui raffigurata in due fogli: in uno, di profilo, in compagnia di monsignor Giuseppe Andrea Albani, – chierico e uditore di camera sotto il pontificato di Pio VI e ordinato cardinale, nel 1801, da Pio VII – nell’altro da sola, frontalmente, in modo che Barberi, assai attento e incuriosito dalla moda dell’epoca, possa rendere con dovizia di particolari sia l’elaborata acconciatura che l’elegante andrienne.
Giuseppe Barberi (Roma 1746-1809)
Pio VI Braschi, 1788 (*)
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 3267-44
Iscrizione: “Papa Pio VI Segnato il di 17 marzo 1788, che venne a vedere le cammere aggiustate da me alla Canonica di Mons. Ridolfi, delle quali restò contento assai, e che ebbi il piacere di parlarci per tre quarti di ora”.
In questo foglio Barberi realizza più un ritratto che non una caricatura di Pio VI (1717-1799), raffigurandolo in abiti da visita. Sempre in ristrettezze economiche, che aumentano con l’ampliamento familiare, Giuseppe accetta, tra il 1787 e il 1788, alcuni lavori in qualità di decoratore e artigiano sia per la Cappella della Canonica di San Pietro che per l’appartamento dell’abate Ridolfi, molto apprezzati dal papa il quale si reca a visionarli personalmente. Ancora una volta l’artista ha occasione di incontrare il Santo Padre, sempre estremamente magnanimo con lui, verso il quale nutre una vera e propria devozione, assolutamente in contrasto con la condotta che assumerà un decennio più tardi, quando diventerà uno dei maggiori protagonisti delle movimentate vicende romane di fine secolo che lo porteranno ad aderire incondizionatamente alle posizioni giacobine, grazie alle quali riuscirà finalmente ad ottenere una serie di agevolazioni professionali che gli permetteranno di pagare gran parte di quei debiti che da sempre lo assillano.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 210 n. 31; D’Amelio 2010, pp. 94-96. (AMD)
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Fabio Rosa (*)
matita nera e acquerello grigio, mm 274 x 202; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-41
Iscrizione: “Il Sig.r Fabbio Rosa uomo molto di garbo, e Galantuomo, era un può chiassone, era amico di tutta la Nobiltà di Roma fu capo computista della Communità, fu poi Computista di Palazzo. Dilettavasi della caccia, e andava sempre con il sig.r Placido Costanzi bravissimo Pittore, aveva fatta una raccolta bellissima di Quadri, Questa interamente la lasciò all’Accademia di S. Luca, ove presentemente esistono. Ho creduto bene rappresentarlo, con Cioccolatta suo servo, e cacciatore quando si riposavano per fare colazione, come soleva fare, essendomi ritrovato al rifresco.”
Questo disegno caricaturale raffigura Fabio Rosa, un personaggio molto popolare nella Roma di metà Settecento, che deve la sua fama al fatto che alla sua morte lasciò la sua quadreria in eredità all’Accademia di San Luca, dove si trova tutt’ora, come riporta la scritta del Marchionni che si conferma fonte attendibile. Figlio del pittore genovese Francesco Rosa trasferitosi a Roma, Fabio nacque qui nel 1681 e vi morì nel 1753; fu sacerdote e fece studi giuridico-amministrativi, arrivando a ricoprire l’ambita carica di computista dei Sacri Palazzi Apostolici, conferitagli da Benedetto XIV nel 1741. La sua grande passione però, ereditata forse dal padre pittore, anch’egli collezionista e mercante, era raccogliere dipinti, forse spinto dall’ambizione di adeguarsi al modello patrizio del collezionista di quadri, proprio alle classi socialmente più alte, nelle quali forse ambiva di essere inserito.
Prima di morire, nel maggio 1752, Rosa lasciò i suoi 183 quadri più belli della sua raccolta all’Accademia di San Luca, andando ad arricchire in modo consistente i fondi accademici dei secoli XVII e XVIII: il lascito fu accettato dopo la sua morte ne maggio 1753, grazie all’intervento dei pittori Agostino Masucci e Placido Costanzi, suoi amici. Marchionni infatti riporta che Rosa era amico di Costanzi, il quale non solo redasse insieme a Masucci l’inventario dei dipinti da lui posseduti, ma ritoccò ed integrò alcuni quadri della raccolta. A detta di Coen, fu probabilmente il pittore Costanzi, in quanto Principe dell’Accademia di San Luca in quegli anni, a consigliare il Rosa a lasciare la sua collezione a quell’istituzione, scegliendo i 183 quadri più significativi per l’Accademia, lasciando agli eredi i dipinti meno interessanti, destinati alla vendita (Coen 2012, p. 13). La collezione di quadri lasciata da Fabio Rosa era di prim’ordine, anche se mancavano opere del Cinquecento, soprattutto per il nucleo seicentesco e per quello di artisti del suo tempo, con i quali aveva rapporti stretti, opere che costituiscono ancor oggi gli esempi più significativi della pittura romana del Settecento nell’Accademia di San Luca: si tratta di bozzetti per quadri importanti di Francesco Trevisani, Giuseppe Passeri, Benedetto Luti, Placido Costanzi, Giuseppe Chiari e Giovanni Paolo Panini, il ritratto di Benedetto XIV di Agostino Masucci, ed un nucleo del paesaggista Jan Frans van Bloemen.
Marchionni doveva conoscere bene Fabio Rosa, anzi forse ne era addirittura amico, se gli dedica ben due caricature (Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. II.9, MR 1508/41, e Tav. II.10, MR 1509/74), evidenziando in entrambe la sua passione per la caccia: qui è raffigurato sotto un albero seduto riposarsi dalle fatiche della caccia, con il fucile appoggiato alla spalla, il fedele servo “Cioccolatta” ed i cani accovacciati ai suoi piedi, mentre sta attingendo ad un “rifresco” di ottima qualità, a detta del Marchionni che dichiara di averlo gustato. La lunga scritta del nostro artista è preziosa, perché documenta aspetti altrimenti irrecuperabili del personaggio, come la sua passione per la caccia, l’amicizia con il Costanzi, ed il carattere esuberante e chiassoso: infatti dice che era “uomo molto di garbo, e Galantuomo” oltre che “chiassone… amico di tutta la Nobiltà di Roma”, secondo una caratteristica diffusa nel patriziato romano, che ritroviamo nel Marchese del Grillo, noto personaggio storico ricco di comicità, magistralmente interpretato al cinema da Alberto Sordi.
Bibliografia: Pietrangeli 1969, p. 322, ill.; Coen 2012, pp. 5-6, fig. 1; Prosperi Valenti Rodinò 2015, pp. 187-190, Tav. II.9. (SPVR)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Charles Lestache, 1793
penna e acquerello, mm 275×195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-58
Iscrizione: “Questo è l’Avv. Lestagie figlio del fu Lestagie scultore autore delli due pupazzi che sono sù la facciata di S. Luiggi di Francesi il figlio il suo merito e quello di essere omo avaro di poca fede basta che faccia il suo interresse non rispetta dovere amicizia raggion dovuta niente e tanto havido che farrebbe anche il bisavolo, Segato che ero arrabbiato per li miei affari il di 16 ottobre 1793”
Charles Lestache (?-1811), figlio dello scultore Pierre – che Barberi ricorda nell’annotazione come l’autore delle statue sulla facciata della chiesa di San Luigi dei Francesi – è particolarmente odiato dall’architetto poiché, con i suoi imbrogli, non gli ha permesso di completare il catafalco di Luigi XVI al quale aveva lavorato intensamente tra l’estate e l’autunno del 1793, quando ancora godeva della protezione del cardinal de Bernis, che lo introdusse presso Pio VI. Barberi definisce Lestache non solo un uomo di poca fede che non rispetta come si deve l’amicizia, ma anche talmente avido che farebbe il “buscarolo”, cioè colui che rimedia i soldi.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 212-213 n. 37. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Vito Maria Giovinazzi, 1787
penna e acquerello, mm 274×197; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 3366-1
Iscrizione: “Questo è l’Abate Giovanazzo ex giesuita gran letterato in specie nel antiquaria. Segnato quando urlava contro il deposito di Canova in gran asemblea di principi addi 17 aprile 1787”
Tra gli ecclesiastici, una delle figure di maggior rilievo è quella del gesuita Vito Maria Giovinazzi (1727-1805) il quale, in qualità di letterato e studioso di filologia classica, venne chiamato dal principe Altieri per dirigere la sua biblioteca e, nello stesso tempo, collaborò con Barberi nella definizione del progetto di decorazione del palazzo al Gesù. Schivo e introverso, il religioso viene raffigurato in un atteggiamento inconsueto e cioè in atto di urlare “in gran asemblea di principi addi 17 aprile 1787”, probabilmente nella chiesa dei Ss. Apostoli dove, qualche giorno prima, era stato inaugurato il monumento canoviano a Clemente XIV, forse il reale destinatario delle ire di Giovinazzi poiché artefice, nel 1773, dello scioglimento dell’ordine cui appartiene.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 205-206 n. 17; D’Amelio 2016, in corso di stampa. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Gobbo suonatore, 1795 (*)
penna e acquerello, mm 270×194; Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 16651
Iscrizione: “Gobbo che cantava per Roma io lo trovai che voleva cantare avanti al Teatro di Tordinona, mentre mi facevo la bibita doppo rifabricato di novo, contai bene di portarlo n teatro, e lo feci cantare sul palco scenico, e colà sentii da esso teatro era armonico, come appunto mi pareva tale, onde questo Gobbo a cantato il primo al novo Tordinona ed era contentissimo che quasi se non li avessi dato niente sarebbe restato contento ma lì apoco permesso fattone Seg. Forse il di 18 luglio 1795”
Unico foglio sciolto tra le caricature barberiane appartenenti alle collezioni del Museo di Roma, tutte rilegate in volume, questo potrebbe appartenere a un’altra serie (vista la presenza, in alto, del numero 37), sconosciuta, oppure semplicemente omesso dagli album che riuniscono personaggi appartenenti al popolo minuto. Il Gobbo suonatore di violino, dalla grande testa coperta da un cappello piumato, viene trovato da Barberi, come lui stesso ci dice in glossa, a cantare davanti all’appena restaurato teatro di Tordinona e convinto ad entrare per esibirsi sul palcoscenico, affinché riesca a testarne l’acustica. Barberi è molto interessato a questo mondo – cui dedica altre caricature nominando nelle relative iscrizioni i nomi di attori, cantanti e ballerini che vi lavorano abitualmente – poiché spesso chiamato dai teatri cittadini più noti, quali il Capranica o il Pallacorda, in veste di redattore di perizie per la loro agibilità, nelle quali segnala gli interventi da effettuare periodicamente e soprattutto in prossimità del periodico inizio degli spettacoli.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 183. (AMD)
Benigne Gagneraux (Dijon, 1756-Firenze, 1795)
Il nano Baiocco, 1786 (*)
acquaforte, mm 440×295; provenienza: dono Amici dei Musei di Roma, 1963
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 14737
Iscrizioni: “BAIOCCO”; “Roma 1788”; “Gagneraux inc.”
L’artista ritrae in questa incisione il nano Francesco Ravai o Ravaglia (1723-1793), mendicante “dalla testa antica e dalla sguardo terribile di Giove corrucciato”, accanto a una grande sedia che ne accentua la piccola statura. Il soprannome Baiocco potrebbe derivare dall’omonima monetina, centesima parte dello scudo romano, che reclamava a gran voce per le strade cittadine e soprattutto nella zona di piazza di Spagna o all’entrata del Caffè Greco, dove posava per gli assidui frequentatori, oppure è possibile che egli stesso si assegnò il nomignolo rifacendosi alla nota maschera della Commedia dell’Arte “Bacocco o Baiocco”, creata dal toscano Antonio Salvi (1664-1724) e interpretata da Antonio Ristorini. Ravai sposò una donna di statura normale, ebbe un figlio, cui riservò un sontuoso battesimo (vedi l’iscrizione in calce al disegno di Marchionni) e ai suoi funerali partecipò una gran folla. Il ritratto di Gagneraux compare anche sul frontespizio della famosa Lettera di Bajocco al ch. sig. abate C. F. giurisconsulto o sia Memoria per servire alla storia litteraria di questo nuovo scrittore di Antiquaria e Belle Arti, Cosmopoli, Roma 1786, libello pubblicato anonimo da Onofrio Boni quale conclusione della violenta controversia – iniziata con la pubblicazione, da parte dell’abate, del terzo tomo della Storia delle arti del disegno del Winckelmann – ormai ridotta sul piano dell’insulto personale.
Di lui si conservano numerosi ritratti – che lo raffigurano con il consueto aspetto dimesso: pantaloni e camicia larghissimi, cappellaccio calcato sulla fronte, scalzo e poggiato all’immancabile bastone – tra i quali ricordiamo quelli realizzati da Carlo Marchionni, Philip Wickstead, David Allan, che nel suo disegno lo definisce “Il povero Baiocco, mendicante romano”, Ann Forbes, Franciszek Smuglewicz, nonché Fragonard, Jens Juel, Jacques Sablet. Quello di Ravai è un caso piuttosto anomalo per il Settecento, di un mendicante rappresentato non più come un ‘tipo’ ma come una persona reale, in linea con le esigenze di quegli artisti alla ricerca di modelli fuori dall’ordinario per i propri studi realistici.
Bibliografia: Bénigne Gagneraux 1983, p. 103; Hufschmidt, Jannattoni 1990, pp. 232-233.
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Il nano Baiocco, 1750-70 (*)
matita nera, acquerello bruno e grigio, mm 260 x 191; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-30
Iscrizione: “Baiocco, e tale, e quale si vede prese moglie le fece un figlio, e con quattro carrozze lo portò al Fonte, e lui andiede ad assistere alla Funzione, e tenne allegra la Città nel vederlo in carrozza con tutta serietà, e siccome stava sempre domandando l’elemo’ina fino a forestieri a spesa di questi Sig(no)ri si diede il trattamento delle suddette quattro carrozze”
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Federico Brogi con, in braccio, Scipione Barberi, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 199×274; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3266-3
Iscrizione: “Brogi che tiene in braccio Scipione in età di mesi due e giorni 17, nato il 18 maggio a ore 11 di domenica pentecoste, Segnato il 14 agosto 1777 Corente anno a ore 5 ½ prima di andare a cena”
Il personaggio raffigurato in questo disegno è Federico Brogi, famoso venditore e rammendatore di calzette, assai noto a Roma sia per il suo mestiere che per l’aspetto deforme in quanto nano, leggermente gobbo e macrocefalo. Dei tre disegni che Barberi gli dedica questo è, senza dubbio, il più affettuoso poiché ritratto in veste di amico di famiglia e senza la sua inseparabile parruccaccia mentre, con un’espressione tenera e felice, tiene sulle gambe Scipione abbracciandolo con le grandi mani. L’autore, come al solito, ci fornisce una serie di notizie dettagliatissime segnalandoci non solo il giorno e l’anno, ma anche l’ora di esecuzione di questa caricatura dedicata sia a Brogi che all’amato Scipione, quartogenito dei suoi nove figli, del quale conosciamo la futura carriera grazie alle notizie riportate da Vincenzo Pacetti nel suo Giornale, in data settembre 1794: “La moglie del Signor Barberi e stata à raccomandare il figlio per la cappellania” e, ancora, nell’ottobre dello stesso anno: “Abbiamo fatto il nuovo cappellano della cappellania Belletti nella persona di Scipione Barberi, figlio del Signor Giuseppe Barberi […]”.
Bibliografia: D’Amelio 2010, p. 82; Prosperi Valenti Rodinò 2015, pp. 344-347. (AMD)
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Peppe il brutto (*)
matita nera, acquerello grigio, mm 274 x 199; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-100
Iscrizione: “Questo è il ritratto di quel tanto rinomato Peppe il Brutto spadaro, e Maestro di Spada, il quale tiene la sua / Bottega al Corso sopra la Chiavica in faccia a Fiano, da me rappresentato collo sciaman o con tutte le sue / caricature, le quali non poteva sentire, ò fingeva, per le quali cose fa quegl’atti impropri colle mani a qualunque / gran Personaggio, bastando solo che si fossero toccati il viso, volendo significare, ò bello, o Brutto, è per altro / bravissimo nella sua Professione, ma peraltro perde del gran tempo per fare il magella per i Caffe, e non stà in Bottega, / e quantunque servisse il Papa, è morto Poveruomo”.
Una vittima dei più feroci strali satirici del Marchionni fu questo Peppe il Brutto spadaro, cui dedicò varie scenette (Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. IV.24,25), che aveva la sua Bottega al Corso sopra la Chiavica in faccia a Fiano, cioè presso una delle chiaviche, o canali di scolo per le acque, che si trovava presso palazzo Fiano Almagià nel quartiere Campomarzio. Si trattava di un individuo laido e volgare, come si intuisce dall’abbigliamento logoro e trasandato, bravo nella sua professione di fabbricante di spade, ma perdeva il tempo nei caffè, dilapidando così i soldi guadagnati, tanto da ritrovarsi alla fine dei suoi giorni povero in canna. Peppe non amava essere preso in giro dal Marchionni, per cui reagiva con gesti scurrili facendo “quegl’atti impropri colle mani a qualunque gran Personaggio”. La sua bruttezza emerge chiaramente dai tratti del volto, quasi animalesco tanto da essere paragonato ad un lupo mannaro per il volto appuntito, la bocca larga e l’assenza del mento – il suo soprannome infatti era “il Brutto” – mentre la sua volgarità è suggerita dal gesto scurrile della mano con cui Marchionni lo stigmatizza più di una volta. L’artista, che evidenzia la sporcizia dell’individuo, paragonato ad un maiale ai suoi piedi, ricrea per contrasto un interno con velleità nobiliare nell’insegna appesa in alto, una sorta di emblema con una testa di negro – allusivo al suo volto scuro – e due spade incrociate, legata ad un nastro e scenograficamente inquadrata da un drappo.
Bibliografia: Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. IV.23.
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
FilippoVasconi (Roma, 1687 circa-1730)
Pulcinella insegna ai figli, 1719 (*)
acquaforte, mm 277×355
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 40865
Iscrizione: “Il platon de polcinelli fra i suoi portici, e…a sui figli fa il maestro ma il suo Grillo, ché più destro e più saggio è del padrone con un raglio i fa la correzione”; “Eques Petrus Leo Ghezzius inv. Et del.”; “Philippus Vasconus sculp. 1719”
Pulcinella è stata a ragione considerata sempre la maschera più popolare d’Italia, tanto da aver goduto anche di una certa fortuna letteraria grazie alle sue connessioni con il teatro. Sul versante artistico, non solo Pier Leone Ghezzi e Carlo Marchionni a Roma gli hanno dedicato molte delle loro invenzioni, ma sono celebri le interpretazioni su di lui fatte a Venezia da Giovan Battista Tiepolo e da suo figlio Giovan Domenico. Protagonista indiscusso della Commedia dell’arte e poi del Carnevale romano, egli è sempre raffigurato vestito con una casacca bianca, largamente rimboccata in vita, con la maschera nera e un gran naso a becco ricurvo, mentre tiene in mano oggetti allusivi alla sua fame perenne. Nell’immaginario collettivo popolare infatti Pulcinella rappresentava il contadino sciocco e burlato, sempre morto di fame, costantemente alla ricerca di qualcosa da mangiare per sé e per la sua famiglia, ma anche astuto, profittatore, sboccato e sensuale.
Nel Settecento fu Pier Leone Ghezzi a dare una nuova interpretazione della maschera napoletana attraverso i suoi disegni raffiguranti La famiglia di Pulcinella, che conobbero una grande diffusione grazie alla traduzione incisoria di Vasconi e Bombelli: qui Ghezzi infatti ambientò la maschera nella realtà della vita quotidiana, dove egli, pur sempre ossessionato dal cibo e dal sesso, in perenne contrasto con la moglie, appare in una dimensione più umana, mentre si affanna a sfamare i figli, a insegnare loro a leggere ed a rassegnarsi alla fatalità dell’esistenza. L’artista quindi ha avuto il merito di non limitare Pulcinella solo a maschera da palcoscenico, ma di innalzarla a figura morale, in quanto lo raffigura vinto dalle difficoltà della vita, come si nota in quest’incisione, mentre si adatta alla dura realtà quotidiana, accogliendo su di sé il peso della sussistenza della sua numerosa famiglia (cfr. Cialoni, pp. 256-263).
Bibliografia: Capobianco in Pulcinella, maschera del mondo 1990, pp. 232-263, cat. 5.0-5. 13; Cialoni 1990, pp. 256-263; Prosperi Valenti Rodinò 2015, pp. 293-295. (SPVR)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Venditore di dolciumi per la festa della Befana, 1790-96 (*)
penna e acquerello, mm 274×200; provenienza: acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-10
Iscrizione: “Venditore di befana”
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Il teatrino dei burattini, 1790-96 (*)
penna e acquerello, mm 275×197; acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-67
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OTTOCENTO
SCHEDE OPERE (* immagine nel CD)
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Aspro combattimento fra antiquari in occasione degli scavi al Colosseo, 1813 (*)
acquaforte acquerellata, mm 253×324; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1930
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 426
Iscrizione: “Fierissimo combattimento fra gli antiquari di Roma nell’anno 1813. Dedicato ala Sig. Barone Vandevivere”.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
L’abate Carlo Fea e gli scavi al Colosseo, 1813
acquaforte, mm 252×306; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 15756
Iscrizione: “Iscrizione che serve all’Architetti per fissare l’epoca dei principali Ristauri visibili ne’ sotterranei all’Arena dell’Anfiteatro Flavio. Depositato alla Direz.e Gen.e della Stamperia, e Libreria”
I due fogli si riferiscono alla vivace controversia sorta intorno all’identificazione delle fabbriche sotterranee dell’Anfiteatro Flavio venute alla luce durante i lavori diretti tra il 1811 e il 1812 da Carlo Fea, all’epoca ‘Commissario delle Antichità e degli scavi’, una delle tante iniziative da lui promosse per restituire leggibilità filologica agli antichi monumenti cittadini. Alle ipotesi dell’architetto Pietro Bianchi e del professore di archeologia Lorenzo Re, che identificano le costruzioni ipogee del Colosseo come cavee per le fiere, si oppone l’abate ipotizzando, a torto, che il livello originario dell’arena fosse più basso e che i muri scoperti negli scavi fossero di epoca più tarda, scatenando accese discussioni che la caricatura ambienta proprio nel luogo oggetto del contendere. Fea che, inevitabilmente, esce sconfitto dal diverbio viene rappresentato in uno dei fogli per ben due volte: la prima mentre, di spalle, contempla l’arena da un livello più basso e, la seconda, mentre, pensieroso, osserva l’epigrafe indicatagli da Decio Mario Venanzio Basilio (praefectus urbi che riparò a sue spese il Colosseo danneggiato da un terremoto – nel 484 o 508 – testimoniando l’avvenuto restauro attraverso varie iscrizioni), che allude a un’interpretazione del podio dell’arena più elevato. Alla sinistra del Fea – seduto su una pila di libri – è il nano Baiocco che lo ammonisce, con l’indice puntato, sbeffeggiandolo per la sua analisi errata. Il Baiocco qui rappresentato è Giovanni Gigante, noto guardaportone del Caffè Nuovo a Palazzo Ruspoli, che si occupava di accogliere i numerosi clienti e l’abate, che del locale era uno dei più assidui frequentatori, veniva – insieme ad altri personaggi pubblici – ripetutamente colpito dai sagaci commenti del nano, per questo motivo denominato “Tormentator dell’antiquario”.
Bibliografia: Pietrangeli 1971, p. 193, figg. 214-215; D’Amelio in Capitelli, Grandesso, Mazzarelli 2012, pp. 592-593.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Il Caffè, 1835 circa (*)
inchiostro e acquerello, mm 413×641; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 4363
Iscrizione: “Il Caffè”
Le figure caricate degli avventori di questo caffè sono distribuite in tutta la scena, il centro è costituito da un tavolo al quale sono seduti due uomini e una donna insieme ad un cameriere che, recando loro un vassoio, rovescia del caffè sul cappello a cilindro di uno dei clienti che gli rivolge uno sguardo sconcertato e stupito più che seccato. Sulla destra un uomo legge un giornale, mentre, sulla sinistra sono raffigurati in modo grottesco altri avventori: due fumatori di sigaro, un consumatore di prelibatezze in sovrappeso e un personaggio il capo del quale è ‘decorato’ da strane protuberanze. Nella Roma dell’Ottocento vi era la consuetudine di trascorrere nei caffè gran parte della giornata, i locali ospitavano amici che andavano per giocare a carte, uomini di affari che e sfaccendati che tra una bibita e un’altra tagliavano i panni addosso a questo e a quello. “I grandi alberghi e le pensioni, le trattorie e le infinite osterie, impedivano che nei caffè si facesse altro che conversare e sorbire le poche bibite calde o fredde, mangiar paste e maritozzi, e giocare alle carte” (De Cesare 1970, p.127). La datazione è stata ipotizzata grazie alla presenza di una filigrana rintracciata sul foglio che reca l’iscrizione: “FABRIANO 1835”. Questo, come altri fogli esposti in mostra, appartiene alla raccolta che Anna Laetitia Pecci Blunt aveva messo insieme durante la sua vita creando una collezione che portava il nome di “Roma sparita” e che poco prima di morire, nel 1971, aveva deciso di donare al Museo di Roma. Si tratta di un fondo di circa milleduecento opere tutte vedute e costumi della città e dei suoi dintorni.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Lotteria in un teatro, 1830 circa (*)
litografia, mm 623×543
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 7784
I romani hanno mostrato da sempre una grande passione per i giochi d’azzardo, consuetudine che veniva spesso punita anche con pesanti ammende, che tuttavia non scoraggiavano gli abitanti dello stato pontificio, abituati a recarsi nelle regioni confinanti per puntare clandestinamente cospicue somme di denaro. Anche il gioco del lotto, liberalizzato suo malgrado da Clemente XII, forniva ingenti introiti che erano devoluti in beneficenza o destinati a sovvenzionare importanti opere pubbliche. Era nella Curia Innocenziana, nel palazzo di Montecitorio, sede del tesoriere generale della Camera Apostolica, che dal balcone un orfano della chiesa di Santa Maria in Aquiro, bendato e vestito di bianco estraeva i numeri. La passione per il gioco comprendeva anche intrattenimenti quali l’estrazione dei numeri della tombola che spesso si svolgeva nelle diverse piazze nelle stagioni in cui ciò era possibile, o lotterie come in questo caso. La litografia, come sostiene Carlo Pietrangeli, mostra l’estrazione dei numeri di una lotteria ambientata in un teatro. Sono raffigurati un bambino che estrae i numeri vincenti da una ruota – in questo caso il 60 -, mentre in primo piano è colta l’esultanza del vincitore che tiene in mano un foglio che reca il numero fortunato.
L’ambientazione è quella apparentemente anomala di un teatro, ma era abbastanza frequente che questi luoghi di ritrovo ospitassero manifestazioni diverse quelle tradizionalmente legate al mondo dello spettacolo. Ancora una volta l’attenzione dello spettatore sembra catturata dalla raffigurazione del pubblico che assiste ripreso con grande cura dei dettagli piuttosto che dall’episodio vero e proprio, infatti le fogge degli abiti indossati, le acconciature, i cappelli delle signore sembrano i veri protagonisti della scena.
Bibliografia: Pietrangeli 1971, p. 241
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore inglese, 1829 circa
matita e penna, mm 194×272;
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 2103
Iscrizione: “When only I have the lineaments I’m sure of the effect”
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore francese, 1829 circa (*)
acquerello, mm 182×237; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6370
Iscrizione: “Il faut faire la nature en sauvage”
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore tedesco, 1829 circa (*)
acquerello, mm 182×239; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6374
Iscrizione: “Ach! welch ein gemütliches blümchen”
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Bartolomeo Pinelli in carrozza, 1829 circa (*)
acquerello, mm 180×241; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6371
Iscrizione: “Più presto di me non farà nessuno”
Dopo aver concluso gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, Carl Jacob Lindström giunge in Italia nella metà degli anni Venti, in compagnia dell’amico e collega Alexander Malmquist. Durante la sua lunga permanenza nel nostro paese prima a Roma e, dal 1830, a Napoli l’artista realizza una vastissima produzione di acquerelli e disegni, tra i quali spiccano quelli a carattere caricaturale, di ispirazione pinelliana, che incontrano un notevole successo di pubblico.
In questi fogli, preparatorii per le relative litografie appartenenti alla fortunata serie intitolata I Stranieri in Italia di Lindström, stampata e distribuita nella città partenopea nel 1830, l’artista deride sempre in modo garbato alcuni tratti caratteristici dei pittori inglese, francese e tedesco. Il primo è equipaggiato di tutto punto con una raffinata attrezzatura ottica costituita da compassi, telescopio, camera lucida, camera oscura, che gli permetteranno di ritrarre il paesaggio con verosimiglianza prospettica; il secondo, sfidando un fragoroso temporale che si sta abbattendo sulla campagna circostante, si lega a un albero pur di ritrarre l’aspetto ‘sublime’ della natura; del terzo viene, infine, evidenziata l’estrema concentrazione nel dipingere un piccolo fiore, ignorando il suggestivo paesaggio.
Nel quarto acquerello, dedicato al pittore italiano, il personaggio rappresentato altri non è che Bartolomeo Pinelli, ritratto a bordo di una ‘botte’, con il fedele e onnipresente mastino, intento a disegnare sull’album. Dietro di lui c’è Giovanni Giganti, il famoso nano Baiocco guardaportone del Caffè Nuovo, con una scorta di fogli. La frase in calce al foglio sembra sia stata pronunciata dallo stesso Pinelli in presenza di Lindström in riferimento alla propria abilità nell’arte del disegno, prontamente utilizzata dall’artista svedese per beffarsi in modo bonario del collega.
Bibiografia.: Benedettucci in Charlotte Bonaparte 2010, pp. 112, 134; D’Amelio in Capitelli, Grandesso, Mazzarelli 2012, pp. 599-600.
Dietrich Wilhelm Lindau (Dresda, 1799-Roma, 1862)
I tre Bajocchi, 1833 (*)
acquaforte, mm 217×335; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6386
Iscrizione: “I tre Bajocchi. D. Lindau fecit. Romae 1833”
Giovanni Giganti (1792-1834), popolare personaggio romano sempre seguito e assistito dalla madre Bibiana che ricambiava con profondo attaccamento, aveva la funzione di accogliere gli avventori del Caffè Nuovo a palazzo Ruspoli su via del Corso. Come il suo predecessore Francesco Ravai (1723-1793), mendicante cencioso dalla folta barba, poiché era nano venne soprannominato Bajocco – dalla monetina di rame dello Stato pontificio che valeva cinque quattrini e costituiva la centesima parte dello scudo d’argento – che, con grande abilità, poggiava sulla fronte facendolo saltare con uno scatto per poi riprenderlo velocemente con la bocca. Giganti sostava all’ingresso del Caffè pulito pettinato e ben vestito, con un soprabito dall’enorme bavero regalatogli da un ricco cliente, come appare nel disegno di Giovanni Vidoni che lo ritrae – similmente all’acquaforte di Gagneraux con Ravai – vicino a una grande sedia di legno, ovviamente molto più grande di lui, sulla quale si intravedono delle piccole monete. Nell’incisione di Lindau – frontespizio del rarissimo opuscolo stampato nel 1835 e attribuito al marchese Luigi Biondi, dal titolo Genealogia, e gesta di Giovanni Giganti conosciuto in Roma sotto il nome di Bajocco – il nanetto accende il sigaro a un militare con un tizzone, stretto tra le molle, mentre nei piccoli tondi ricompare due volte, l’una mentre accetta una presa di tabacco e l’altra raffigurato sulle spalle della madre con la quale, alla luce di una lanterna che lui stesso tiene in mano, attraversa di notte le strade di Roma.
Nel terzo e ultimo foglio lo troviamo in compagnia di due persone una delle quali, seduta, lo sta scrutando con curiosità attraverso una piccola lente.
Per la sua fama Giganti viene ricordato anche da Giuseppe Gioachino Belli nel sonetto intitolato L’anima der curzoletto apostolico, del 15 gennaio 1835, con il quale innesca una vera e propria reazione a catena di altri componimenti dedicati al personaggio.
Er guarda-paradiso, ggiorni addietro
pregava Iddio pe uprí li catenacci
a Ssu’ Eccellenza er cavajjer Mengacci
che strijjò in vita sua piú d’un polletro.
Dio s’allissciava intanto li mostacci,
e ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
«Voi ci date in cotèdine, sor Pietro,
e cci avete pijjati pe ccazzacci.
Cqua nnun è er reggno de voi Santi Padri,
dove la frusta, er pettine e lo stocco
fanno sorte e ttrionfeno li ladri.
E ssi vvoi nun zapete er vostr’uffizio,
le vostre chiave le darò a Bbajocco
e appellateve ar giorno der giudizzio».
Giuseppe Giochino Belli, 15 gennaio 1835
Alla onorata memoria di Giovanni, detto Baiocco
Dal seme de’ giganti io nacqui nano,
e mi dier di Baiocco il soprannome.
Alto fui quattro palmi, appunto come
la mezza-canna al nostro uso romano.
Non ebbe il torso mio nulla di strano,
ma le gambe fur corte e fatte a crome:
grosso il capo, il pel nero, ampie le chiome,
schiacciato il naso, e il piè bello e la mano.
Fui del nuovo caffè guardia e decoro,
di chiunque apparia pronto a’ servigi,
buono, saggio, e, a dir vero, un giovin d’oro.
Quanti venian da Londra e da Parigi
mi davan doni, e dir solean fra loro:
«Questo baiocco val più d’un luigi».
Sonetto attribuito al marchese Luigi Biondi
Bibliografia: Giuseppe Gioachino Belli 1963, p. 107; Michel 1987, pp. 92-96; Jannattoni 1992, pp. 385-386, Michel 1996, pp. 617-622.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
L’entrata di Carnevale,1820-1830 (*)
inchiostro e acquerello, mm 292×477; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 1878
Iscrizione: “L’entrata di Carnevale”
Una grassoccia allegoria del Carnevale troneggia al centro della scena mentre fa il suo ingresso su un carro circondato da varie maschere tra cui si riconoscono Arlecchino e Pulcinella. In primo piano compaiono tre maiali, mentre teste di maiali, prosciutti e salsicce decorano il carro. Il Carnevale a Roma era una festa importantissima, basti ricordare che secondo la definizione di un viaggiatore straniero a Roma, nella città le tre grandi celebrazioni erano il santo Natale, la santa Pasqua e il santissimo Carnevale. Tutti gli scrittori di passaggio a Roma – citiamo per tutti Goethe – dedicano pagine indimenticabili a questa ricorrenza colpiti da spettacoli quali la corsa dei barberi o il rito dei moccoletti che si consuma nella sera del Martedì grasso, ovvero, prima che abbia inizio il primo giorno di Quaresima con i suoi riti di penitenza e di mortificazione. E’ infatti solo nel breve periodo del Carnevale che la popolazione, approfittando della licenza momentanea da un’esistenza grama e monotona, può dedicarsi ai festeggiamenti più folli e dare sfogo agli istinti repressi. “Il Carnevale romano ha un’antica reputazione di brio, di eccentricità, di follia, giustamente meritata….è sulla pubblica via che esplode la gioia e la gioventù di ogni ceto sociale prende parte alla festa pubblica” (Kauffman, in Fiorani 1970, p. 288) è questa la caratteristica del Carnevale romano: nelle strade hanno luogo i festeggiamenti più sfrenati, mentre i balli in maschera si tengono negli splendidi palazzi della nobiltà e sono limitati alla cerchia dell’aristocrazia.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Maestro e scolari, 1820-1830
inchiostro e acquerello, mm 284×397; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 1871
Il disegno mostra un maestro che conduce un gruppo di scolari , ognuno dei quali reca un libro sul quale si legge un soprannome : Checco Rapa, Giggio Pomata, Figlio di Tata, Peppe Cappio, Citriolo, “nipote di mio zio”; un altro, Toto Carota, regge un abbecedario, mentre lo scolaro che compare sulla destra appende al codino del maestro un cartello che reca la scritta: “Est Lucanda”. Ad essere “caricate” spesso nella satira di questi anni sono più le situazioni che i personaggi, laddove la caricatura non si pone come obiettivo di divertire, ma di far riflettere mediante lo smascheramento delle contraddizioni della società o dei comportamenti umani (Segni di gloria 2012, p. 8). In questo caso è attaccata l’istruzione nello stato del papa che costituiva un momento di grande importanza ed era considerata come base di formazione; il settore era particolarmente curato dal regime pontificio, vi erano molti istituti che avviavano al lavoro manuale, ma l’intento primario era quello di contribuire all’educazione morale e religiosa degli individui e di inculcare comportamenti sociali e valori, completando l’opera di assistenza alle classi popolari con la cura
dei bambini tolti dalla strada (Bartoccini 1985, pp. 311-320). Si può ipotizzare che il maestro sia la caricatura di un importante personaggio legato al mondo dell’istruzione, probabilmente il ministro preposto a questo settore nell’ambito dello stato pontificio.
Ambito francese della prima metà del secolo XIX
Tre uomini davanti al busto della cosiddetta “Madama Lucrezia”, 1820-1835 (*)
acquerello, mm 319×202; provenienza: acquisto Alessandro Castagnari, 1930
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2792
Il foglio appartiene a una serie acquistata dal Museo di Roma, nel 1930 per lire 850, da Alessandro Castagnari, proprietario di una Libreria antiquaria in via del Babuino, che li propone come “Tredici disegni acquarelli a colore di anonimo francese rappresentanti caricature di personaggi della società romana del sec. XIX”. Questi ritratti vengono acquisiti dal neo-nato museo con l’intento di creare una raccolta di opere d’arte di vario genere che, similmente agli analoghi esempi già creati nelle altre capitali europee, fosse in grado di documentare la secolare storia cittadina dal punto di vista urbanistico, architettonico e soprattutto sociale. Gli acquerelli, – inediti ed esposti per la prima volta in questa mostra – che a giudicare dai capi d’abbigliamento potrebbero essere datati entro il primo trentennio dell’Ottocento, raffigurano un gruppo di personaggi appartenenti alla società cittadina dell’epoca, alcuni dei quali vagamente identificati grazie a brevi annotazioni a matita sul verso o sul recto dei fogli, come il soffiatore di vetro, il tipografo o un tale Fioroni. Mentre il personaggio con favoriti, codino, baffi e pizzetto sembra essere lo stesso che compare in tre fogli: mentre sosta, nel Cimitero Acattolico, davanti alla lapide di un tale Milord Molas; abbarbicato alla statua parlante di Madama Lucrezia (truccata e addobbata con fronzoli e nastri, in occasione del “ballo dei guitti” del I° maggio) in compagnia di due personaggi uno dei quali, raffigurato di spalle, è il famoso archeologo e collezionista Carlo Fea – che commissionò ad Annibale Malatesta l’impiombatura degli otto frammenti in cui si era rotta la statua – e, infine, mentre si libra in volo su un paesaggio marino con un frustino nella mano destra e una fiaccola, accesa e capovolta, nella sinistra. La glossa manoscritta sul verso di quest’ultimo disegno, “L’autore che sbarca a Civitavecchia”, ce lo indica come l’artefice delle caricature. Poiché da una probabile firma trovata su uno dei fogli che, con molta difficoltà a causa di una calligrafia pressoché illeggibile, potrebbe essere intesa come “Matheus”, non è stato possibile risalire a un artista compatibile con le opere, è stata avanzata un’ipotesi identificativa con Horace Vernet, sia per la somiglianza somatica che per un’affinità stilistica con altri suoi schizzi caricaturali poco conosciuti, conservati presso l’Art Institute di Chicago. Direttore dell’Accademia di Francia dal 1829 al 1834, egli soggiorna a Roma in compagnia dello stravagante padre Carle, anche lui pittore, famoso sia per le animate scene di vita quotidiana e di strada colte con immediatezza e humor che per i disegni sui costumi alla moda. E’ possibile che Horace, influenzato sia dalla produzione paterna che da quella caricaturale del suo maestro François-André Vincent – il cui atelier frequenta con Géricault – decida di utilizzare, per una produzione assolutamente privata, i toni ironici peculiari dello spirito francese a raffigurare con estrema cura quei personaggi che ebbe modo di conoscere durante il suo soggiorno romano.
Il don Pirlone. Giornale di caricature politiche
A.1, n. 1 (1 set. 1848)-a.1, n.234 (2 lug. 1849). – Roma, Tip. Antonio Natali. – ill.; 32 cm. – Quotidiano.
La vignetta della testata del primo numero pubblicato il 1 settembre 1848, un pipistrello in abito talare con la testa dell’aquila asburgica che regge tra gli artigli la costituzione del 1848, introduce l’intento ridicolizzante del quotidiano nei confronti dei reazionari che ostacolavano le riforme concesse da Pio IX. Don Pirlone, maschera toscana che rappresenta il benpensante ipocrita,
raffigurato nella testata dal n.2 sino alla fine con un mantello gonfiato dal vento potente del cambiamento, è il primo giornale satirico con caricature che osò attaccare il governo del Papa. Il fondatore Michelangelo Pinto, patriota romano, si riserva, non solo la revisione dei testi, ma la possibilità di scegliere le composizioni artistiche de’ disegni , riconoscendo alla vignetta un ruolo dominante. Gli articoli e i disegni non sono firmati, l’ autore delle tavole più significative è il pittore friulano Antonio Masutti. Il tono satirico dei testi e delle vignette, che colpisce i retrivi, ma non risparmia i rivoluzionari irresponsabili, provoca nel dicembre del 1848 una condanna per offese all’autorità e reintroduce la censura preventiva sui disegni al fine di limitare gli effetti dirompenti delle caricature. Il quotidiano, che favorì il clima che precedette la Repubblica Romana, sospende le pubblicazioni con l’entrata dei francesi a Roma.
Bibliografia: Pinto 1851-1852; Spada 1868-1869; Majolo Molinari 1963; La satira restaurata 2005.
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Testi e immagini da Ufficio Stampa Zètema – Progetto Cultura