“Perché, sorella, sei venuta?” | Voci di donne nell’epica, di Cecilia Nobili
La monografia di Cecilia Nobili, Voci di donne nell’epica (Carocci, 2023), si apre con un mito che rappresenta un perfetto paradigma delle forme di sopravvivenza della voce femminile in letteratura. È il mito di Procne, Tereo e Filomena riportato nel romanzo greco di Leucippe e Clitofonte.
“Filomena, sorella di Procne, venne violentata dal cognato Tereo il quale, per impedirle di riferire la violenza subita, le tagliò la lingua. Filomena tuttavia ricamò l’accaduto su un peplo, rivelando così il delitto a Procne, che si vendicò uccidendo il figlio che aveva avuto da Tereo, Iti”1.
Il punto focale del mito non consiste tanto nella violenza subìta, e nemmeno nel tentativo maschile di soffocare la comunicazione tra donne. Anche il mito latino di Tacita Muta (la mitica madre dei Lares compitales), speculare a quello di Filomena, racconta di una Naiade resa muta da Giove come punizione per aver rivelato alla propria sorella l’interesse del re degli dèi nei suoi confronti. E anche nel mito di Lara-Tacita c’è una violenza sessuale2: quella che Tacita subisce da parte di Mercurio, incaricato da Giove di condurla nel regno dei morti. E, di più, in entrambi i miti, la comunicazione che si teme – qui scongiurata, lì punita – è tra sorelle. Ciò in cui la storia di Filomena differisce da quella di Tacita, ciò che lo rende archetipo positivo, è che, anche priva di lingua, Filomena non si rassegna al silenzio e fa della tela il suo testo.
“Da Sofocle ad Achille Tazio ma ancora prima in Omero, l’arte della tessitura e il prodotto che ne deriva, ossia la tela ricamata, diviene emblema stesso della voce femminile, troppo spesso tacitata o rinchiusa tra le mura domestiche. Grazie a essa le donne possono comunicare con l’universo maschile e con il mondo esterno, e la tessitura non a caso diviene, sin dalle origini, metafora stessa della poesia e del canto”3.
Voce silenziosa, voce della spola
Questa fu la forma di sopravvivenza della voce femminile nell’epos, di cui questo mito segna in modo mirabilmente preciso la rotta. Queste voci – quelle di Teti, Ecuba, Penelope, Nausicaa, Elena, Andromaca, Circe, Calipso, le sirene – sopravvivono davvero come la voce di Filomena sulla tela. La loro è una sopravvivenza sempre clandestina, di certo quando appartiene a donne-outsider (la scandalosa Elena, la perturbante Circe), ma anche quando apparentemente si uniformano al mondo che abitano (le mogli e madri esemplari Andromaca, Penelope). I poemi omerici, pur espressione di un epos maschile, a loro non poterono rinunciare, almeno come verosimili comparse. Quello fu lo spazio in cui sopravvissero.
“Le donne che fanno la loro apparizione nei poemi omerici parlano, ma la tessitura appare come un sostituto del canto, o del mythos […]. Le donne omeriche, infatti, oltre a parlare, cantano, come fanno Circe e Calipso mentre tessono, Nausicaa con le sue compagne mentre lavano le vesti, ma le loro parole non vengono riportate, a differenza di quanto invece avviene per i cantori maschi, sia amatoriali sia professionisti”4.
D’altronde, già la prima apparizione di Penelope nell’Odissea fissa permanentemente i confini della giurisdizione femminile per quel che concerne la parola. Quando, commossa fino allo strazio dai racconti del cantore sul nostos degli Achei, Penelope scende dalle sue stanze e domanda all’aedo di scegliere un argomento meno doloroso per il suo canto, il figlio Telemaco, assunto il ruolo di erede del padre in casa, impone prontamente alla madre di tacere. Nel ricordarle che la parola pubblica, il mythos, non le compete, le ingiunge anche di avere il coraggio di ascoltare quella parola. Ancora una volta, la voce maschile, di massima dignità, è quella da cui la voce femminile deve imparare, a cui deve piegarsi.
“Anche tu abbi il coraggio e l’ardire di ascoltarlo;
[…]
Ma tornando nelle tue stanze dedicati alle tue opere,
il telaio e il fuso, e ordina alle ancelle
di badare al lavoro; il discorso compete agli uomini
tutti, e soprattutto a me; anche il comando è mio in questa casa”5.
Forme della sopravvivenza della voce femminile nell’epos
“La professione rapsodica sembra essere riservata unicamente agli uomini e la voce epica è una voce maschile rivolta ad un pubblico altrettanto maschile. L’unico contributo femminile alla performance epica è rappresentato dalle Muse, ma all’interno di un processo in cui […] un autore uomo attribuisce un tipo di discorso a una donna poi lo fa suo”6.
Il continuo colloquio con la poesia di Saffo in questa monografia ricorda al lettore che quella in corso non è soltanto una ricognizione di personaggi mitologici. È anche un’investigazione intorno alla poesia femminile nella Grecia antica. Se il genere epico per le donne greche era pressoché interdetto, alcune forme di espressione poetica eleggevano le donne in via preferenziale o esclusiva. È il caso della preghiera. Mezzo con cui mogli e madri intercedono presso le divinità per gli uomini a loro cari: con la preghiera retoricamente ben congegnata le donne dell’epos sanno piegare e vincolare gli dèi. È altresì il caso del lamento, modalità espressiva femminile per eccellenza, anche a prescindere dall’occasione funebre. Ma le voci di donne trovano mezzi espressivi anche nella poesia nuziale – Nausicaa – simposiale e oracolare – Circe.
Nobili dimostra inoltre come due donne – Elena e Penelope – arrivino, per la poliedricità dei registri, a competere con Omero in persona, a configurarsi come suoi alter ego. Ma questo non avviene per loro senza un prezzo da pagare. Per Elena, in grado con la sua eloquenza di “imporre addirittura la propria voce su quelle degli uomini che le stanno intorno”, è il biasimo. Per Penelope, è il silenzio. Come la sorella di Shakespeare immaginata da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, Penelope è dotata di una metis pari a quella del marito, ma
“può metterla in atto solo grazie alla tessitura poiché il mondo delle parole e del canto le sono preclusi”7.
“Perché, sorella, sei venuta?” O del fare pace coi modelli
“Perché, o sorella, sei venuta? Tu prima
non venivi, poiché abiti molto lontano da qui.
E mi ordini di smettere il pianto e i molti
lamenti, che mi tormentano l’animo e il cuore.
Prima ho perso lo sposo eccelso, forte come un leone
[…]
Ora il figlio amato è salito su una concava nave,
inesperto, senza conoscere le fatiche né i discorsi.
Per lui mi affliggo ancora più che per quell’altro.”
Così Penelope apostrofa Atena quando le appare in sogno con le sembianze della sorella Iftime. Nei primi quattro versi è contenuto tutto il dramma dell’eredità della voce femminile. Queste donne che hanno trovato posto clandestinamente nell’epos, per sopravvivenza giunte fino a noi; queste donne che, privilegiate almeno nella memoria tra torme di altre pari senza nome, sono state traghettate dalle lingue antiche; queste donne che, inevitabilmente, scopriamo avere come espressione privilegiata il lamento. Queste donne forse è così che ci avrebbero apostrofate, oggi, come Penelope apostrofa la sorella-Atena, nello scoprire che le avremmo disprezzate per la loro eredità.
Ogni parola poetica nasce da uno sforzo di emersione dagli abissi. Quando tale sforzo è compiuto e la parola si salva dal silenzio, la parola è alla luce e può essere guardata. Lì inizia il suo destino. Ma ogni parola pronunciata da donna porta con sé un’ombra ulteriore, un nuovo abisso in cui è condannata a entrare dopo essere nata. Quest’ombra dipende dallo sguardo che su quella la proietta. Non è salvifica, come l’altra da cui era uscita. È l’ombra della mano che, non avendo potuto in tempo tagliare la lingua, ne brucia le carte. Per mettere a tacere le voci femminili si è operata la tecnica dello sminuimento del loro valore, la peggior forma di condanna e la più efficace censura, da quando alle donne si è aperto stabilmente il mestiere della scrittura.
E tra i vari giudizi e pregiudizi di genere, anche le donne del mito ritrovano la loro lunghissima eredità: tra le colpe imputate alle voci di donne in poesia c’è, ad esempio, quella di suonare lacrimevoli. Come sopportare, per chi si scontra quotidianamente con la realtà di questo sguardo, l’eredità delle donne dell’epos? Uno dei capitoli della monografia di Nobili s’intitola “La poetica del lamento”. Quello precedente, “La preghiera agli dèi: una prerogativa femminile”, quella successiva “la poetica nuziale”. Il libro si apre e si chiude con l’immagine di donne al telaio. Le donne nell’epos furono questo. E nell’essere questo furono tantissimo. Questo suggerisce scandalosamente questo libro, il cui primo merito sta nell’atto di accendere la luce sulle parole di queste donne. L’intero equilibrio del saggio è saldo sul pilastro della citazione. È dalle parole che si riparte, dalla lettera che si chiede al lettore: “Ascolta. Ascolta meglio”.
Voci di donne: costellazioni parallele
Nella mia percezione, il lavoro di Nobili non può essere disgiunto da un’altra operazione di riscoperta della voce femminile, a cui ho avuto occasione di collaborare, Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento (a cura di Isabella Leardini, Vallecchi, 2023). In entrambi i casi non si tratta di scoprire il nuovo, ma dell’atto di togliere il velo da ciò che è noto. Così come Nobili parla di donne celeberrime e canonizzate del mito, Leardini affastella sedici nomi già affermati della poesia italiana del secolo scorso. Ma entrambe le operazioni, per quanto riportino a galla ciò che già era, sono tanto benefiche quanto è totalizzante il buio che continuamente tenta di inghiottire la voce femminile, in tutti i secoli. In entrambi i casi si tratta di rifare i conti con un’eredità che troppo spesso si è stati tentati o costretti a disconoscere.
Penelope, forse la più famosa tra le donne dell’epos, davvero potrebbe dire così in sogno alle donne-sorelle che oggi la riscoprono, la guardano, la giudicano: “da quale lontananza siete venute, ora, ad ascoltarmi e come ora chiedete di non piangere, a me che non posso fare altro?”. Così da un altro capo del mondo le risponderebbe oggi un’altra voce:
“Esistono oceani di lacrime che le donne non hanno mai pianto, perché sono state addestrate a portare i segreti della madre e del padre, i segreti degli uomini, i segreti della società e i loro segreti giù nella tomba. Il pianto della donna è stato considerato piuttosto pericoloso, perché allenta le serrature e i chiavistelli sui segreti che porta. In verità, per il bene dell’anima selvaggia, è meglio piangere”.8
Scandaloso è riconoscere non solo che il lamento sia femminista, ma accettarlo anche in quanto più antica e propria delle forme di canto femminili. Cecilia Nobili lo fa con un’operazione culturale che è tutta occhi ed ascolto aperto. Un ascolto che ci mostra, ad esempio, come il lamento di Andromaca, perfetto modello di moglie da cui ci si aspetterebbe perfetta conformità ai canoni, sia la più sovversiva delle voci femminili di questi due poemi – non Elena, non Circe, non Calipso. Il suo lamento ricorda come l’indignazione personale sia l’inizio di ogni vera denuncia sociale.
“E non mi hai detto una parola saggia”: la vita oltre il kleos
“La gente in città ti piange,
Ettore, maledetto, tu hai dato pianto e dolore ai tuoi genitori,
ma a me soprattutto lascerai pene terribili.
Infatti, non sei morto nel tuo letto tenendomi la mano,
e non mi hai detto una parola saggia, che io possa per sempre
ricordare, notte e giorno, tra le lacrime.9”
Proviene da Andromaca, la “lamentatrice” per eccellenza nelle parole di Nobili, l’attacco più duro al sistema di valori dell’Iliade, al kleos che governa le vite degli eroi e li rende ciechi di fronte a tutto il resto. Come da copione, il lamento funebre di Andromaca sul cadavere di Ettore contiene, accanto alla tenerezza e all’elogio, la commiserazione per il triste destino a venire e per la disperata condizione di chi resta, solo e indifeso, sulla terra. Ma queste parole di Andromaca contengono, io credo, anche una critica più dura. Un attacco peggiore di quello ai versi appena precedenti, in cui viene rinfacciato a Ettore di aver reso, con le stragi di nemici, sua moglie e suo figlio passibili di orribili vendette. Lì Andromaca mostrava le conseguenze oscure della fame di gloria del marito. Ma in questi versi dice di più: quella “parola saggia” che lamenta di non aver ricevuto da Ettore significa non un semplice motto consolatorio, ma la carenza, in lui, di una saggezza esistenziale che possa sorregge nel dolore della sua assenza. Andromaca sta così denunciando il fallimento del sistema di valori del marito, e della società di cui era il campione: il mondo del kleos non è capace di salvare dal dolore, l’intero mondo del kleos non vale una parola saggia detta sul letto di morte.
Note:
1 Cecilia Nobili, Voci di donne nell’epica. Personaggi e modelli poetici femminili nell’Iliade e nell’Odissea, Roma, Carocci, 2023, p.11.
2 Eloquentemente, la protagonista di questo mito cambia nome dopo gli eventi subìti: colei che parla (Lara) divenuta colei che tace (Tacita).
3 Nobili, op. cit., p.12.
4 Ivi, pp. 12-13.
5 Ivi, pp. 126-7.
6 Ivi, pp. 18-19.
7 Ivi, pp. 133.
8 Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Sperling & Kupfer, Milano, 2016, p. 407.
9 Nobili, op. cit., p. 69.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.