I due dipinti di Andrea Pozzo, Cattura di Cristo e Flagellazione di Cristo (ca. 1672-73, olio su tela), sono un lascito della Collezione Silvino Borla – Trino (VC)

N.1
Conferenza, salone degli Svizzeri, MRT

Alle 17.00 del giorno 18 dicembre 2021, presso il Salone degli Svizzeri di Palazzo Reale di Torino, il prezioso dono di due opere d’arte alla Galleria Sabauda di Torino si è trasformata nell’opportunità di far seguire alla loro presentazione ufficiale una conferenza sull’autore, il Gesuita Andrea Pozzo, attraverso gli approfonditi studi del grande storico piemontese Giovanni Romano, scomparso il 24 dicembre 2020.

L’evento, oltre a costituire un doveroso ringraziamento agli eredi di Silvino Borla per l’eccezionale donazione,  è divenuto anche una preziosa occasione per ricordare Romano a un anno dalla dipartita che tanta profonda commozione aveva destato in tutto il mondo dei beni culturali: uomo colto e lungimirante, seguace del pensiero dello storico dell’arte Roberto Longhi, fu Soprintendente per i beni storico artistici del Piemonte dal 1970 al 1987, incarico che gli diede modo di curare molte mostre monografiche su tutto il territorio regionale e nel 1982 di promuovere l’eccezionale progetto di riordino e ristrutturazione della Galleria Sabauda di Torino proseguito dai suoi successori.

Andrea Pozzoalla Galleria sabaudaLa dottoressa Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali di Torino, ha infatti aperto l’incontro, ricordando come spesso succede che “intorno alle opere d’arte si muovono fili di memorie intrecciate che riguardano non solo gli artisti che le hanno prodotte, i committenti che le hanno volute ma anche chi le ha possedute nel tempo, chi le ha amate, studiate, riscoperte” ed in particolare come le due tele del Pozzo raccolgano la memoria di almeno tre persone che è doveroso e piacevole ricordare per il loro contributo alla cultura del nostro territorio e della città stessa.

La Direttrice, dopo aver “raccontato” l’ingresso dei due dipinti alla Galleria Sabauda (dalla notizia dell’acquisizione risalente al dicembre 2019 con le iniziali incertezze sulle contenute disponibilità dei Musei Reali di Torino per l’acquisto di nuove opere d’arte subito fugate entrando in contatto con il generoso donatore, fino alla presa visione delle due tele dai funzionari del museo nella primavera del 2020), ha illustrato il rapporto di amicizia e grande stima reciproca che legava Borla e Romano.
Due importanti personaggi, l’uno eminente storico locale proprietario dei dipinti e direttore del Museo di Trino e l’altro studioso delle due opere e maestro di generazioni di storici dell’arte. Sicuramente avrebbero gradito essere accumunati in questo importante momento che li ha visti insieme, ancora una volta, nella salvaguardia del nostro territorio, come già accadde nel 1980 all’apertura di una importante mostra fondamentale per la tutela del territorio trinese curata da Carla Enrica Spantigati, che chiudeva una catena di iniziative importantissime di catalogazione capillare del patrimonio piemontese.

Ha ricordato inoltre che fu proprio Giovanni Romano, durante il suo mandato dirigenziale in Sovrintendenza, ad interrogarsi sul destino dei tantissimi oggetti che rappresentano la cultura del passato, sulla loro riqualificazione e il destino futuro ribadendo, nella premessa al catalogo, la responsabilità di ognuno di noi e indicando proprio l’amico Silvino “come l’argine all’oblio e alla dispersione del patrimonio trinese”.
La Direttrice ha quindi sottolineato come – in questa ottica di salvaguardia – le due opere donate siano preziose per la storia dell’arte, ma pure per il ruolo che assumono nel contesto creato da studiosi e artisti attivi sul territorio in collaborazione con la Sovrintendenza, ricordando in particolare gli eccezionali risultati ottenuti nel decennio 1970-1980, sotto il coordinamento proprio di Romano e che “tramite la sua azione ‘implacabile’, ci ha consegnato il patrimonio del territorio di storica memoria insostituibile”.

Il compito di approfondire il discorso sulle due tele trinesi donate, Cattura di Cristo e Flagellazione di Cristo, ma più in generale sul percorso pittorico del loro autore, è stato affidato poi alla dottoressa Gelsomina Spione, docente di Storia dell’arte Moderna, del Dipartimento Studi Storici presso l’Ateneo torinese, (della quale riporto ampi stralci dell’intervento particolarmente interessante) che ne ha illustrato l’evoluzione proprio attraverso gli studi di Giovanni Romano.

Andrea Pozzo
Andrea Pozzo, Cattura di Cristo, ca 1672-1673, olio su tela
Andrea Pozzo
Andrea Pozzo, Flagellazione di Cristo, ca 1672-1673, olio su tela

Credo siano le opere più antiche finora note di Andrea Pozzo pittore e, data la quasi certa destinazione d’origine per una chiesa piemontese, si può pensare una datazione ancora negli anni di noviziato per mano di un maestro assai promettente di circa 25 anni”.

Così scriveva lo studioso in un articolo magistrale del 1989 in cui aveva ricostruito l’attività di Andrea Pozzo tra Lombardia, Liguria e Piemonte, indicando le due tele databili agli anni del noviziato del religioso e dall’iconografia tipicamente morazzoniana (in riferimento al pittore Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone), dove i pochi toni di luce rimandano dal Sacchi di area classicista a un tardo Poussin e i colori spaziano dal giallo più intenso fino a un tono più spento, insieme al lilla e l’azzurro cenere.

Nel 1980, in occasione della mostraPer i 400 anni della ‘Misericordia’ 1579-1979” a Cavallermaggiore (CN) in cui vennero esposte per la prima volta recanti il nome di Andrea Pozzo, fu possibile verificare direttamente l’intuizione attributiva di Romano riconoscendo nel pittore il leader indiscusso di un territorio in provincia di Cuneo (rappresentato nella mostra dalla sezione precedente a quella dedicata al Pozzo ed etichettata da Romano “la grande provincia” termine divenuto in uso comune la “granda”), che dal punto di vista geografico e politico era dipendente dalla capitale del ducato, ma capace di una libertà, resistenza ed autonoma sperimentazione che il centro, sede di una corte, non era in grado di permettersi.
Facendo scorrere alcune immagini di altre opere del pittore, la dottoressa Spione fa notare come il sorriso leggermente beffardo dell’autoritratto del Pozzo, conservato a Firenze nella Galleria degli Uffizi (circa 1686-1687), serva a contestualizzare un aspetto dell’autore ovvero la sua forte personalità indipendente nel suo agire che emergerà costantemente nonostante le strumentalizzazioni e le pressioni dell’Ordine dei Gesuiti, e sottolinea come l’articolo dello studioso piemontese sia un riferimento imprescindibile per chi si accosta all’analisi del pittore trentino.
In particolare, nel periodo del suo frenetico pellegrinare negli anni sessanta e settanta del 1600, tra vari centri italiani, Trento, Milano, Genova, Mondovì, Torino, precedenti al trasferimento del pittore a Roma avvenuto nel 1681:

Negli anni giovanili affastella sui fondamenti lombardi della sua formazione, le suggestioni cromatiche libere della pittura genovese e la costruzione compositiva del classicismo romano del Poussin miscelati in un linguaggio del tutto personale che in Lombardia e in Piemonte avrà effetti importanti sulle successive generazioni di pittori”.

Dettaglio della tela di Andrea Pozzo, Flagellazione di Cristo, ca 1672-1673, olio su tela

La dottoressa Spione ha sintetizzato la biografia del pittore riportando alcuni dati: la nascita a Trento nel 1642, il trasferimento nel 1662 in Lombardia presso la bottega di un artista di origine comasca, ipotetico maestro di identità ignota preparato sui temi del classicismo romano (che cita da Baldinucci), poi l’entrata nel 1665 nella Compagnia di Gesù a cui seguono i 4 anni di noviziato in Piemonte nel collegio di Sant’Antonio di Chieri e poi nella casa del San Fedele a Milano.
Nel 1671 viene richiesto a Genova per San Francesco Borgia, dove esegue una serie di opere (Immacolata e San Francesco Borgia) realizzate per la chiesa del Gesù e dei Santi Ambrogio e Andrea di Genova, affrescata tra il 1671 e il 1673, mentre nel frattempo si reca più volte a Milano. Come fa notare Romano nel suo prezioso articolo dell’89, queste opere ci danno l’idea di osservare la città di Genova con occhi del Pozzo:

Genova intorno al 1670 doveva apparire agli occhi avidi di Andrea Pozzo come un encomio di pittura d’avanguardia assai più allettante che non Milano o Torino in grado di tener testa alle altre capitali figurative fatte salve solo Roma e Napoli in Italia, anche ammettendo che Pozzo non si fosse ancora recato a Roma per esplorarne i fasti pittoreschi, si deve riconoscere che al repertorio tradizionale e di attualità disponibile nelle chiese e nei palazzi genovesi era tale da poter trascinare il pittore gesuita verso una radicale svolta”.

In queste città persino Reni, il primo Rubens, Van Dyck e Vouet rischiavano di essere surclassati dalle supreme tele berniniane e poussiniane lasciate da Giovanni Castiglione (detto il Grechetto) nelle chiese di San Luca, di San Giacomo della Marina e di Santa Maria di Castello: tre dipinti la cui fastosità cromatica aveva sicuramente attratto Pozzo.

Giovanni Romano si sofferma poi su Gian Battista Carlone e ne ricorda gli affreschi conclusi nel 1670 nella chiesa della Annunziata del Vastato di Genova dove

l’insieme delle volte e delle pareti a giganteschi partiti architettonici non potevano non conquistare Andrea Pozzo coinvolto da quelle proporzioni sperticate, dallo spreco di invenzioni a sorpresa sia per le iconografie più convenzionali sia a livello di affascinanti cannocchiali architettonici. I colori esasperati di Carlone finirono per stregarlo, e animeranno la gamma cromatica con cui Andrea Pozzo si presenterà poi a Cuneo e Mondovì”.

Le due opere di Trino oggi donate e ritenute da Giovanni Romano le più antiche risalenti alla sua gioventù (1664-1665) si collocano prima dell’impatto con le sperimentazioni del Seicento genovese o, forse, nel decennio successivo (come proposto da Giuseppe Dardanello e Francesco Frangi nella mostra monografica a Trento dal 19/12/2009-05/04/2010, allestita in occasione del 300° anno della morte del pittore–architetto gesuita). Provenienti da una chiesa piemontese probabilmente Sant’Andrea a Bra, furono poi acquistate da Borla in stato di abbandono da un retrobottega della sua città.
L’origine piemontese delle due tele, in attesa di una soluzione più convincente, è testimoniata da una vicenda legata all’ordine dei Gesuiti, ovvero l’esistenza di due copie antiche di esse, di misure ridotte di circa la metà rispetto alle originali, ora conservate nella collezione del castello di Carrù: eseguite probabilmente da un collaboratore nelle principali imprese del pittore che, seppur di qualità, riproducono in termini completamente diversi il soggetto del Pozzo, dove la cupa tragedia messa in scena e la sofferenza estrema quasi senza speranza sono tradotte con una cromia decisamente più distesa e tranquilla.

Secondo Romano, le due opere trinesi restano le più lombarde del pittore per la fantasia cupamente pessimista che richiama il rigore della Milano borromaica e di un suo protagonista, il Morazzone, caratteristica che risulta ben evidente ponendole in parallelo con due tele di questo pittore, La incoronazione di spine e La Spoliazione di Cristo; è interessante notare che l’incontro con Genova maturato sulla tradizione lombarda resterà un bagaglio importante per Andrea Pozzo, al quale attingerà ancora arrivando a Roma.

La progressiva maturazione nella struttura compositiva del Maestro, che sottrae le figure all’ombra e accende la scelta cromatica, risulta evidente nella selezione delle opere della mostra torinese dedicata a Pozzo, raffrontate con alcune opere di Cuneo e Mondovì tra cui La Sacra Famiglia ancora nella sua collocazione originale nella chiesa dei Gesuiti a Cuneo.
Giovanni Romano si è soffermato più volte su questo dipinto, considerandolo un elemento cruciale di maturazione prima della grande impresa decorativa nella chiesa di San Francesco Saverio (detta poi della Missione) di Mondovì dove, rispetto alla tradizione lombarda e le accensioni cromatiche genovesi, sono molto forti i modelli romani, desunti forse da un viaggio a Roma avvenuto prima del suo trasferimento nell’Urbe negli anni ottanta, ma pure lo sono le influenze dall’ignoto maestro comasco e le opere di Dauphin viste in Piemonte o quelle per le quali si percepisce l’ispirazione di Sacchi e Poussin.

La Sacra Famiglia di Cuneo, messa in scena di giocosa tenerezza, la sistemiamo per differenze e assonanze tra La predica di San Francesco Saverio, realizzata per la chiesa del Gesù e dei Santi Ambrogio e Andrea a Genova (ora a Novi Ligure), e uno dei punti fermi della produzione giovanile ovvero il lunettone con La disputa di Gesù tra i Dottori del Tempio nella basilica di San Defendente Martire a Romano di Lombardia del 1675.
La tela di Genova fa emergere la libertà di invenzione del suo autore, costruita sui sermoni dei Gesuiti: una traduzione di parole in immagini in cui San Francesco Saverio, raffigurato nella accesa disputa con i dottori come un uomo di condizioni sociali non elevate, contrariamente a come lo vediamo di solito, viene posto allo stesso livello degli astanti e compie un animato ampio gesto di straordinaria enfasi teatrale per cercare di farsi capire c da chi lo circonda (alcune figure inginocchiate per ricevere il Battesimo e altre coinvolte nella discussione).
È una tela che si lega per passaggi e velocità nervosa della pennellata con il lunettone, ma la luce è immobile, atmosferica, non ha ancora quel rigore e la costruzione precisa che abbiamo visto nel telone di Romano di Lombardia o nella Sacra famiglia di Cuneo.
Qui Giovanni Romano fa notare la capacità di tradurre in un linguaggio tutto suo quanto aveva appreso a Genova dal Grechetto, poiché in questa tela c’è una teatralità dirompente da rapportare proprio al telone di Castiglione nell’Oratorio di San Giacomo della Marina. La tela del Pozzo però non è ben accetta dai Gesuiti che mandano questa sua straordinaria invenzione a Novi Ligure perché il protagonista, la figura eroica che dovrebbe svettare, invece va ricercato tra le figure presenti sulla scena, il che fu  ben sintetizzato dalle parole del Ratti citato dalla Spione:

Per risoluto sforzo dei chiari scuri usatovi è difficile intendersi, fu giudicata quest’opera meno bella dell’altra quantunque le superasse, e per non esporla alle sciocche censure del volgo si fece da quei Padri trasferire in luogo meno ovvio”.

A questo punto Pozzo ha ormai una reputazione solida nel capoluogo lombardo, dove alle richieste per l’Ordine aggiunge quelle per la committenza privata: sono talmente tanti i lavori che il pittore si sfoga in una lettera del 1676 al proprio rettore di Mondovì, preoccupato dall’insistenza nell’avvalersi del suo lavoro.
Nella primavera del 1676 si dà il via allo spettacolare cantiere della chiesa della Missione di Mondovì, con spostamento dell’asse della sua attività finale piemontese, che diventa così canale privilegiato della sua attività fino al termine del 1680 (quindi a ridosso della sua partenza per Roma). Dardanello, anch’egli docente di Storia dell’arte Moderna presso l’Ateneo torinese, scrive pagine importanti su questi affreschi: “un festoso e rutilante spettacolo in pittura tutto in debito con quanto aveva poter visto a Genova”.

Sarà a seguito di questo impegno che la Duchessa Reggente Maria Giovanna Battista di Savoia chiederà al Padre Generale dell’Ordine Giovanni Paolo Oliva di potersi avvalere del Maestro per la decorazione della volta della Chiesa dei Santi Martiri dei Gesuiti a Torino, alla quale lei teneva particolarmente a seguito di una serie di strategiche alleanze politiche. L’intervento sulla volta impegnerà Pozzo dal 1677 al 1680, durante i quali risiederà nel collegio di Torino, decorazione che però fu distrutta nel 1842. La dottoressa Spione riporta una descrizione ottocentesca:

Tutta dipinta a vista di sotto insù con architetture e figure esprimenti la gloria di Sant’Ignazio portato dagli angeli”). Della finzione prospettica allestita dal pittore probabilmente in competizione con quanto aveva già realizzato a Mondovì, rimane in controfacciata un concerto di angeli.”

Di questi anni a Torino resta un’unica tela, la Crocefissione, eseguita per l’altare della Crocefissione nella chiesa di San Lorenzo, il patronato dell’Abate Botero, primo segretario della Principessa Ludovica di Savoia. Opera scopertamente ispirata alla Crocefissione di Simon Vouet del 1622, conservata nella genovese chiesa del Gesù e dei Santi Ambrogio e Andrea, come esempio di memoria visiva rielaborata.
Tela importantissima per gli sviluppi della pittura locale, dove propone questo modello di delicata intima devozione, in cui la luce ancora una volta movimenta la composizione e accende i colori.
Giovanni Romano indica chiaramente che la figura di Pozzo rappresentava per Maria Giovanna Battista e poi per il figlio Vittorio Amedeo II un modello di spettacolare celebrazione che avrebbero voluto vedere tradotto in chiave profana per il palazzo ducale, al punto che quest’ultimo arrivò a pretendere che il pittore ritornasse da Roma per realizzare questo suo desiderio.

Intelligentemente, il pittore riuscì a sottrarsi alle richieste e inviò da Roma la pala Madonna con Gesù Bambino, San Giovanni e San Michele Arcangelo, dimostrando una volta di più la sua indipendenza e come sia riuscito a trovare sempre il modo di non farsi strumentalizzare dall’Ordine, un atteggiamento divenuto simbolico nel confronto centro/periferia. Tema questo carissimo al nostro Studioso e divenuto strumento di tutela del territorio piemontese sulle realtà periferiche rispetto al contesto nazionale, in comune condivisione con la Spantigati e Silvino Borla, e sul quale scrisse dei passi fulminanti e fece lezioni all’università per coloro che sarebbero andati a lavorare sul territorio (la dottoressa Spione si annovera tra coloro che avrebbero intrapreso questa via). Romano, in riferimento agli affreschi di quella straordinaria impresa per la Missione di Mondovì e a difesa della intelligenza e della resistenza del territorio periferico, scrive:

“È difficile sottovalutare l’impatto della clamorosa affermazione di Andrea Pozzo a Mondovì con la realtà figurativa monregalese tutt’altro che insensibile o impreparata a coglierne la sconvolgente verità.”

La risposta immediata di Sebastiano Baricco nella cappella di San Benedetto al Santuario di Vicoforte ci consente di misurare la capacità di resistenza e la capacità di confronto della scuola pittorica locale e vale la pena di notare che la stessa non sia riconoscibile a Torino dove nessuno sembra accorgersi della volta affrescata da Pozzo alla chiesa dei Santi Martiri; solo allo scadere degli anni ottanta Vittorio Amedeo II, non potendo avere Andrea Pozzo, si rivolse altrove e allora in città arrivarono le novità da Roma, Legnanino da Milano, Gregorio De Ferrari e Bartolomeo Guidobono da Genova.

La dottoressa Spione termina il suo intervento riportando la conclusione del saggio del 1988 di Giovanni Romano, significativamente intitolato “Resistenze locali alla dominazione torinese”, parole perfette per intelligenza e per ironia:

L’ostinata fedeltà al proprio distinguersi dai torinesi fino all’inconciliabilità, meglio Genova e Roma che Torino, viene confermata da un dipinto di Andrea Pozzo, una ‘Annunciazione’ di pirotecnica deflagrazione che nella Sacrestia dei Canonici di Mondovì fa buona compagnia a un ‘Angelo Custode’ giovanile. Staccato dalla parete per la campagna fotografica, il dipinto ha rivelato sul retro la preziosa scritta – 1692 in Roma comprata per il signor Canonico Michele Luigi Trombetta -”.

E ci fa anche notare come un Monregalese di gusti raffinati che – apprezzando gli affreschi di San Francesco Saverio a Mondovì e la pala di Padre Pozzo di Cuneo – volle garantire anche al Duomo della propria città una pala dipinta da un maestro di prestigio ormai internazionale, mentre i torinesi vennero così battuti sul tempo nel chiedere a Frate Pozzo le grandi tele per la Cappella dei Mercanti.

La dottoressa Pagella, dopo i ringraziamenti alla Docente che ha restituito tanto degli studi di Giovanni Romano, “una figura che resterà dentro la Galleria Sabauda insieme alle decine e decine di opere da lui amate e studiate”, ha sottolineato come sia bello poterlo ricordare tutti insieme a un anno dalla scomparsa, auspicando che accada ad ogni anniversario della sua dipartita.

La Direttrice dei Musei Reali introduce poi la dottoressa Annamaria Bava, Responsabile dell’Area Collezioni, che ci ha restituito il senso di queste due opere donate da Piero Borla, figlio di Silvino Borla, presente in sala insieme alla sorella Serena, e che ha avuto modo di intervenire durante la conferenza, raccontando proprio la scoperta del padre dei due quadri in un retrobottega di Trino, intuendone subito l’importanza nonostante il pessimo stato di conservazione.
La Direttrice si è rivelata entusiasta nel raccontare quando fu invitata a casa Borla per vedere le due opere, seppe della loro incredibile scoperta e dell’intenzione di donarle alla Galleria Sabauda, ed ebbe modo di apprezzarne la qualità riconosciuta subito da Silvino e poi studiata da Romano.

È stata infatti subito evidente la grande capacità dell’autore di rendere a livello chiaroscurale la composizione, tanto che all’inizio si pensò ad un pittore caravaggesco e si è stabilito che meritassero una collocazione permanente all’interno della Galleria.
Le opzioni potevano essere due. La prima era l’inserimento nell’ambito della pittura caravaggesca, a cui guarda Pozzo in quel momento; la Galleria possiede un nucleo molto interessante sui lombardi Morazzone, Crespi detto Cerano, Procaccini, Niccolò Musso (la cui tela Cristo che porta la croce al Calvario, che sarebbe anche in sintonia con il soggetto, fu acquisita tramite Giovanni Romano). La seconda opzione, che venne scelta, interessava la loro collocazione temporaria.
Sono state quindi sistemate al secondo piano in una sala con due opere di Charles-Claude Dauphin, collocabili tra il 1665 e il 1675, corrispondenti alla datazione delle due tele di Trino. Il pittore francese, che arrivò a Torino nel 1652, portando la cultura del suo paese, era conosciuto e apprezzato da Pozzo.
Le due opere sono: San Francesco in estasi. San Francesco D’Assisi sostenuto dagli angeli dopo aver ricevuto le stimmate del 1665, che ci fa comprendere quali erano le tele che si trovavano sugli altari di corte, e una grande tela raffigurante La strage dei figli di Niobe (inizialmente attribuita a Giuseppe Cesari, detto Cavalier D’Arpino e solo in seguito correttamente riconosciuto a Dauphin da Romano).
Nella stessa sala si vede l’evoluzione negli anni ottanta e novanta del Seicento, con l’arrivo a Torino di Daniel Seyter con la sua tela Il Cristo sorretto dagli Angeli

Piero e Serena, figli di Silvino Borla, davanti alle due tele donate

La voce della dottoressa Bava, ora lievemente incrinata nel doveroso e caro ricordo del suo Maestro, nel terminare la conferenza, ha voluto sottolineare una volta di più l’importanza degli studi di Giovanni Romano e quanto egli abbia dato alla Galleria Sabauda, nonché alla storia dell’arte piemontese, nazionale e internazionale.

Famigliari di Silvino Borla insieme alla dott.ssa Annamaria Bava e la Direttrice degli MRT, dott.ssa Enrica Pagella

Tutte le foto sono di Claudia Musso.

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