Il piccolo libro del grande terremoto. Lisbona 1755, di Rui Tavares, Tuga Edizioni, 2019 – recensione

Il terremoto di Lisbona del 1755 ha cambiato per sempre la visione delle catastrofi da parte dell’uomo. Il sisma è infatti avvenuto in un momento spartiacque rispetto al pensiero filosofico, al rapporto con le religioni, alle conoscenze scientifiche. Una documentata monografia ne approfondisce ora questi e altri aspetti, fornendo un ampio sguardo d’insieme.

Il piccolo libro del grande terremoto. Lisbona 1755 (Tuga Edizioni, 2019) è opera di Rui Tavares, poliedrico storico e intellettuale portoghese, già docente universitario a Firenze ed ex eurodeputato indipendente. Ed è stata tradotta in Italia da Gianluca Galletti grazie a una piccola casa editrice romana tutta dedicata alla diffusione della letturatura e della storia in lingua portoghese. Un progetto editoriale nato, nella collana “Torre do Tombo”, proprio con questo libro di Tavares, “piccolo” soltanto nel formato di stampa. È grande al contrario il passaggio storico sottolineato dall’autore, così come il confronto temporale che, partendo dal terremoto di Lisbona, arriva all’11 settembre 2001 e allo tsunami del 26 dicembre 2004. Tutti eventi che hanno mobilitato l’opinione pubblica mondiale, obbligando

«l’umanità a una riflessione sulla tessitura della storia, sull’identificazione del bene e del male o sui rapporti tra cultura, religione e realtà» (p. 14).

Praça do Comércio a Lisbona
Praça do Comércio a Lisbona, oggi. Foto di Deensel, CC BY 2.0

Il confronto con fatti avvenuti pochi anni fa può apparire superficiale, ma non lo è. A testimoniarlo è il lavoro di ricerca sulle fonti svolto da Tavares. Esso non si limita ad essere un punto di partenza per il racconto e l’analisi dell’evento sismico. Nel loro insieme, infatti, tutte queste fonti determinano una caratteristica fondamentale: la varietà di canali di comunicazione che diffusero la notizia del terremoto in Portogallo e soprattutto all’estero. Lisbona, del resto, era un porto accessibile e piattaforma delle grandi rotte di navigazione; da lì, oltre a merci e materiali preziosi, passarono anche testimoni diretti della catastrofe. Senza i loro resoconti, corrispondenze manoscritte e stampate su opuscoli e gazzette,

«il Terremoto del 1755 non sarebbe stato questo terremoto. Gli opuscoli fecero il terremoto – il mezzo già era il messaggio, pure 250 anni fa» (p. 33).

Sebastião José Carvalho e Melo, conosciuto come marchese di Pombal. Dipinto di autore ignoto
Sebastião José Carvalho e Melo, conosciuto come marchese di Pombal. Dipinto di autore ignoto, da Vila Real. Foto Flickr di , CC BY 2.0

Come tutte le grandi storie, anche questa ha un protagonista. Un nome familiare a chiunque sia stato a Lisbona: Sebastião José Carvalho e Melo, conosciuto come marchese di Pombal. Da primo ministro, toccò a lui gestire la ricostruzione attraverso riforme agricole, industriali e sociali, limitando il potere della nobiltà e arrivando allo scontro con i gesuiti, espulsi dal paese nel 1759. In vent’anni di governo, sotto il suo impulso, il Portogallo diventò uno Stato moderno. Ma sarebbe avvenuto ugualmente senza il Grande Terremoto? Come scrive Tavares, egli

«captò profondamente i vantaggi di governare in uno stato d’eccezione […] in fatto di mezzi, nuovo personale politico e libertà d’azione» (pp. 60-61).

Statua di Giuseppe I di Portogallo, opera di Joaquim Machado de Castro
Statua di Giuseppe I di Portogallo, opera di Joaquim Machado de Castro. Foto di Osvaldo Gago – fotografar.net, CC BY-SA 2.0

E il re? Giuseppe I e la famiglia reale si salvarono perché in quei giorni risiedevano nel Palazzo Reale di Belém anziché nel Palazzo della Ribeira, che fu invece completamente distrutto (si affacciava su quella che oggi è la Praça do Comércio). Benché incolumi, i reali subirono danni psicologici: il trauma del terremoto fece sì che vivessero per gli anni a seguire in tende lussuose, per paura di una replica.

Palazzo della Ribeira prima del grande terremoto di Lisbona del 1755
Palazzo della Ribeira. Foto dell’incisione opera di Wirdung, CC BY-SA 4.0

Peggio andò alla popolazione di Lisbona. Perché non fu soltanto il terremoto a causare morte e distruzione. Uno tsunami con onde alte sei metri provocò danni enormi nella zona del porto, trascinando nelle vie della città numerose imbarcazioni e detriti in legno. I quali, subito dopo, divennero combustibile per gli incendi che scoppiarono ovunque in città, tra le macerie, in mezzo ai gruppi di sfollati. Le vittime furono decine di migliaia, e lo tsunami colpì anche regioni più lontane: sulle coste del Marocco le onde arrivarono a 15 metri e causarono anche lì migliaia di morti.

Lo shock della catastrofe si diffuse presto in Europa e scatenò un’accesa diatriba tra devoti e materialisti. I primi non avevano dubbi: il sisma era stato una punizione divina contro i lisbonesi, troppo secolarizzati. I secondi avevano gioco facile: perché allora erano state distrutte anche decine di chiese, mentre la strada dei bordelli non aveva subìto danni? Se ne occuparono, tra gli altri, Voltaire (con un poema dedicato al terremoto), Rousseau, Kant e Goethe. Al gesuita italiano Gabriele Malagrida, tornato in Europa dopo anni di attività missionaria in Brasile, la pubblicazione dell’opuscolo Juízo da Verdadeira Causa do Terremoto – in cui sosteneva la tesi della punizione divina – costò invece il patibolo. Il governo del marchese di Pombal non poteva accettare che i sudditi del re

«si fossero infilati tutti nelle chiese a espiare i loro peccati: chi avrebbe seppellito i morti e si sarebbe preso cura dei vivi? E chi avrebbe ricostruito la città?» (p. 179).

la copertina del saggio Il piccolo libro del grande terremoto. Lisbona 1755, di Rui Tavares, pubblicato in Italia da Tuga Edizioni (2019)
la copertina del saggio Il piccolo libro del grande terremoto. Lisbona 1755, di Rui Tavares, pubblicato in Italia da Tuga Edizioni (2019)

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