Peteano, oltre una strage degli anni Settanta: l’ultimo libro di Paolo Morando indaga la figura di Vincenzo Vinciguerra

Gli archivi della stampa degli anni Settanta rivelano un gran numero di eventi criminosi di vario genere. Basta sfogliare una data a caso: notizie che oggi occuperebbero ampie pagine e reportage potevano finire relegate in fondo alle pagine di cronaca nera. Non era questo il caso dei più efferati fatti di sangue. Ma ciò poteva avvenire con altre vicende, non meno significative per tracciare collegamenti e per far emergere la verità e i responsabili di altri più noti episodi di violenza. O addirittura di atti di terrorismo.

I libri di Paolo Morando sono, da questo punto di vista, esemplari: perché inchiesta giornalistica e ricerca storica disegnano un quadro unitario pur lambendo fatti e personaggi di cui resta scarsa memoria. Sono nomi, luoghi, episodi finiti in passato nelle “brevi” dei quotidiani. E a cui l’autore affida il compito di sciogliere la trama di eventi che hanno segnato la storia italiana.

In L’ergastolano. La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra (Laterza, 2022), Morando consolida questa tecnica, ampiamente affinata nel suo Eugenio Cefis (2021) e rintracciabile già nel suo ormai cult Dancing Days (2009). Lo fa nel cinquantesimo anniversario dell’esplosione che il 31 maggio 1972 tolse la vita a tre carabinieri a Sagrado di Peteano, nei pressi di Gorizia. E a partire da questo evento, tra i più anomali della strategia della tensione, ripercorre le piste di indagine (non solo rossa e nera, come da tradizione, ma anche “gialla”), i depistaggi, i processi e le trame politiche e giudiziarie che lo hanno caratterizzato. O, appunto, anche solo tangenzialmente sfiorato. Ma tenendo il punto sul vero fattore peculiare della vicenda: la presenza di un reo confesso, Vincenzo Vinciguerra.

Non è questo l’unico aspetto che rende singolare la vita di Vinciguerra. È, ad esempio, in carcere ininterrottamente dal 1979 ad oggi, senza aver mai chiesto un solo permesso premio. Nonostante questo, ha scritto e pubblicato numerosi libri, rilasciato interviste (Morando ricorda in particolare quella a Sergio Zavoli per La notte della Repubblica), reso deposizioni in molteplici occasioni (l’ultima, per un nuovo processo sulla strage alla stazione di Bologna, appena sei mesi fa), avviato e infranto collaborazioni con magistrati diversi (tra cui Felice Casson, giudice veneziano a cui si deve gran parte della ricerca della verità in questa vicenda). Eppure non è un pentito: tiene infatti per sé non pochi segreti del terrorismo nero degli anni Settanta. Anni in cui ha fatto parte dei movimenti di estrema destra Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, frequentandone i leader e ottenendo il loro aiuto per le fughe nella Spagna franchista e in Sud America, prima del suo arresto definitivo nel 1979. Nel mezzo, appunto, Peteano. Una strage che, nelle intenzioni di Vinciguerra, “doveva interrompere il processo di identificazione fra quelle che sono istituzioni militari e il neofascismo italiano”.

Egli si sentiva infatti, e si sente tuttora, un soldato in guerra contro lo Stato: e non fu più disposto ad accettare, nel 1972, la connivenza tra l’estrema destra e i servizi di sicurezza deviati, il cui obiettivo era spianare la strada a una democrazia autoritaria (“in Italia non c’è episodio di strage in cui l’estrema destra non sia coinvolta”, dice ancora Vinciguerra).

Nel suo libro, tuttavia, Morando deve non solo dar conto delle posizioni di Vinciguerra (ribadite nell’intervista di chiusura), ma anche affrontare le numerose vicende collaterali che a quelle dichiarazioni si collegano. Intorno a questa vicenda, infatti, il quadro si allarga a un dirottamento aereo avvenuto nell’ottobre 1972 a Ronchi dei Legionari (dove restò ucciso un militante neofascista), alla P2, ad Almirante (coinvolto in un’inchiesta per favoreggiamento di uno dei terroristi di Peteano, da cui uscì presto grazie a un’amnistia), fino alle bombe di Trento nel 1970-71 e alla violenza politica di quei mesi in città.

E poi, ovviamente, le indagini su Peteano. Il libro di Morando mostra, in particolare, il tentativo degli inquirenti di cercare i colpevoli prima negli ambienti della sinistra: ma “poggia, questa pista, su una autentica falsificazione messa in atto da più alti ufficiali di diversi corpi dello Stato, tutti poi chiamati a risponderne negli anni ’80 in aule di giustizia” (p. 62). Abbandonata questa pista, a finire in questura e poi in carcere furono sei goriziani, che dovettero subire un anno di carcere e un “grottesco e drammatico processo” prima di essere “definitivamente assolti – e con formula piena – solo nel 1979” (p. 85). È con la successiva inchiesta del giudice Casson che i colpevoli della strage dei tre carabinieri vengono cercati negli ambienti dell’estrema destra. Una pista che appariva fin dall’inizio la più probabile, come mostra Morando descrivendo il contesto delle frequenti intimidazioni nell’area del neofascismo friulano: eppure “si fece di tutto per occultare gli elementi, fattuali e di immediata comprensibilità, che avrebbero consentito di individuare, arrestare, processare e condannare rapidamente i veri colpevoli” (p. 75). E invece nelle prime indagini, come rileva ancora l’autore del libro, si arrivò addirittura a far sparire i bossoli ritrovati sul luogo dell’esplosione.

“A far sparire quei bossoli – scrive Morando – furono proprio gli ufficiali dei carabinieri che indagavano sulla strage in cui erano caduti tre loro giovani commilitoni. Capite ora perché, a rileggere questa storia, ancora non ci si crede?”

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La copertina del saggio L’ergastolano. La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra, di Paolo Morando, Editori Laterza (2022)

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