Qui rido io e I fratelli De Filippo:
la “casuale” saga cinematografica
dei giganti del Teatro italiano
Articolo a cura di Gianluca Colazzo e Mariano Rizzo
Le vicende familiari della dinastia Scarpetta – De Filippo sono ben note a storiografi e amanti del teatro: tra figli legittimi e illegittimi, beghe giudiziarie e un talento che scorre imperterrito nel sangue superando le differenze di status, la realtà sembra assumere le caratteristiche di un dramma che potrebbe benissimo essere stato scritto da Eduardo (Scarpetta o De Filippo, poco importa). Era lecito aspettarsi che prima o poi questa storia venisse trasposta sul grande schermo; meno prevedibile, invece, che essa venisse scissa in una coppia di film girati da due tra i migliori registi del panorama italiano e usciti in un lasso di tempo molto breve.
Qui rido io di Mario Martone è stato tra i protagonisti della stagione autunnale appena conclusasi: nelle sale a partire dal 9 settembre scorso e in home video dal 5 gennaio, il lungometraggio ha come fulcro l’annosa bagarre tra Eduardo Scarpetta e Gabriele d’Annunzio a proposito del comicissimo Il figlio di Iorio, parodia de La figlia di Iorio, opera del Vate. I fratelli De Filippo, girato invece da Sergio Rubini, è rimasto in sala per soli tre giorni (dal 13 al 15 dicembre) per poi approdare su Rai Uno in prima serata il 30 dicembre 2021; in esso si racconta invece la vicenda di Titina, Peppino ed Eduardo, figli non riconosciuti di Scarpetta, e della loro ascesa a leggende del teatro. Due storie complementari, dunque, che arrivano perfino a sovrapporsi nella seconda metà dell’uno e nel primo quarto dell’altro.
Uno dei punti di giunzione tra i due lungometraggi è infatti il personaggio di Eduardo Scarpetta: protagonista nel film di Martone e personaggio secondario in quello di Rubini, il patriarca della grande dinastia teatrale è al centro di due performance estremamente differenti (anche in termini di screen-time), ma entrambe in grado di elevare il livello del film.
In Qui rido io Toni Servillo ci regala uno Scarpetta istrionico, in precario equilibrio tra un’esistenza tragica e la necessità di far ridere il proprio pubblico; un padre-padrone di scarsa tenerezza e grande severità, sul quale si basa tutta la vicenda (e di conseguenza l’intero film).
Nell’opera di Rubini l’attore è interpretato da un immenso Giancarlo Giannini, che gli dà una connotazione ben più ombrosa, un’aria truce che non lo abbandona nemmeno quando sul palcoscenico veste i panni del personaggio-feticcio Felice Sciosciammocca: lo Scarpetta di Giannini non è amorevole né romantico, anzi finisce per apparire quasi un boss in grado di manovrare a proprio vantaggio i fili della propria famiglia e dell’intera città. O, perlomeno, di lasciare intendere che sia così. Sebbene appaia solo nei primi minuti, la sua ombra si stenderà sui tre nipoti-figli per il resto della pellicola, fino a che essi non saranno in grado di emanciparsene con le proprie forze.
I fratelli De Filippo è infatti una storia di formazione corale, che si sviluppa lungo svariati decenni e coinvolge non solo i tre protagonisti (interpretati dai semiesordienti Mario Autore, Domenico Pinelli e Anna Ferraioli Ravel), ma anche il nutrito cast di comprimari, tra i quali spiccano un inedito Biagio Izzo in versione tetra e Marianna Fontana, curiosamente già apprezzata in Capri-Revolution di Martone.
Per contro, Qui rido io si concentra sugli anni della querelle legale tra Scarpetta e d’Annunzio, che il regista fa coincidere con il declino dell’attore e della sua maniera di fare teatro. I due film differiscono profondamente anche sul piano emotivo: Martone, come suo solito, osserva i personaggi attraverso una lente discreta, asettica, quasi consapevole del latente voyeurismo dello spettatore; nessuno dei personaggi sembra richiedere pietas, nemmeno lo stesso Scarpetta/Servillo. Rubini, al contrario, cerca l’emozione e l’empatia: basti pensare al commovente finale, che presenta un gioco registico studiato appositamente per indurre alla lacrima. E va bene così.
A ben vedere, la differenza d’approccio è riscontrabile anche nel lato tecnico dei due film, in particolare nel modo in cui i registi raccontano la città di Napoli: in entrambe le pellicole la città non è solo quinta scenica, ma protagonista silenziosa e forza motoria alla base di qualunque azione dei protagonisti. Martone la racconta con il suo solito occhio discreto, asettico, con una studiata lontananza che finisce per far brillare i vicoli silenziosi, gli interni affollati, i teatri in penombra: anche quando non la si vede, si ha sempre la consapevolezza di essere a Napoli, in un’epoca lontana ma non troppo. Rubini adotta invece un linguaggio più classico, che spesso indulge al panorama facile, agli angoli pittoreschi, al Vesuvio sfumacchiante, senza mai, va specificato, scadere nel già visto: fanno eccezione le molte citazioni visuali di capolavori come L’oro di Napoli, richiamati con affetto e discrezione mediante il ricalco di alcune inquadrature.
I due film sono, insomma, prodotti molto diversi non solo sul piano tecnico ed estetico, ma anche nell’essenza cinematografica; tuttavia essi trovano la propria comunanza nella passione e nell’affetto che hanno alla base. Tanto lo Scarpetta di Martone quanto i tre De Filippo di Rubini non sono eroi, né hanno la piena consapevolezza di quanto potranno, in futuro, divenire fondamentali per la storia del Teatro; al contrario, tutti e quattro combattono contro il pregiudizio, contro la necessità imposta dall’arte di evolversi continuamente rimanendo se stessi. Da questo punto di vista, entrambe le pellicole mostrano una Napoli in continuo fermento, dove le mode fanno presto a rendersi antiquate e chi si ferma, cristallizzandosi in un’idea di teatro fattasi già vecchia in pochi mesi, è perduto. A soffrirne sarà principalmente Scarpetta (sia nell’uno che nell’altro film), ma anche Eduardo, Titina e Peppino dovranno sottostare a una gavetta fatta di molte sconfitte e pochi trionfi.
L’aderenza alla realtà dei fatti è un altro elemento che unisce i due lungometraggi: le licenze, che pure ci sono, più che a piegare la Storia alla trama servono semmai a corroborare il rapporto tra il personaggio e il valore (o disvalore) che esso incarna. Stranamente, la “vittima eccellente” di queste licenze è tutte e due le volte Eduardo De Filippo: all’occhio più attento non sfugge che entrambi i registi l’abbiano in qualche modo caricato di una malcelata preminenza, sia su suo padre (in Qui rido io, dove è ritratto come un bambino prodigio) che sui suoi fratelli (nel film di Rubini è visto come il più colto e lungimirante dei tre). Pur non trovando particolari riscontri nelle fonti, l’affetto nutrito dal pubblico per il grande commediografo fa perdonare facilmente queste libertà.
Pur molto diversi tra loro, Qui rido io e I fratelli De Filippo sono senza dubbio tra i prodotti più interessanti del 2021 e finiscono per costituire una saga cinematografica che, pur casuale, non può non rinverdire negli spettatori l’affetto per dei giganti del Teatro italiano, lasciandoli commossi e soddisfatti.
Foto e video del film Qui rido io di Mario Martone da 01 Distribution, foto e video del film I fratelli De Filippo di Sergio Rubini da 01 Distribution.