Qual è il cuore, l’essenza profonda dell’istinto di viaggiare? La risposta a questa domanda subisce da sempre, come in pochi altri casi, i mutamenti della civiltà umana. Il ventaglio delle possibili risposte si apre in un ampio movimento che tocca, ai due estremi, le parole ‘svago’ e ‘fuga’ a seconda del luogo in cui ci si trova, in cui si è nati. Ma forse esiste una definizione che può contenere, in breve, il gran numero di suggestioni che associamo al viaggio. La troviamo tra le pagine del libro di Tommaso Giartosio, Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea (Einaudi, 2023):

Si viaggia non per la fama […] ma per uno sguardo, una visione binoculare che incrocia conoscenza e stupore, e che possiamo anche chiamare ammirazione. (p. 5)

Sono le parole che Giartosio – riprendendo una riflessione di Michel Butor – pone in premessa a ventitré lettere scritte al fotografo Antonio Politano dopo il viaggio in Eritrea che entrambi hanno compiuto nel 2019. Un dialogo, dunque, tra parole e immagini. Parole che, tuttavia, prendono forme diverse anche rimescolandosi e riacciuffandosi di continuo tra prosa, poesia, reportage – finendo per forgiare qualcosa di diverso, in un impianto originale. E immagini che, assenti nel libro, possiamo appunto soltanto immaginare attraverso le parole dell’autore. Al centro di questo dialogo ci sono l’Eritrea, la sua popolazione, la sua storia.

Tutto quello che non abbiamo visto
La copertina del libro “Tutto quello che non abbiamo visto” di Tommaso Giartosio, pubblicato da Einaudi (2023) nella collana Frontiere

Una storia di conflitti, soprattutto. A partire dalla prima penetrazione italiana nel paese, nel 1869, e dalla successiva colonizzazione durata fino al 1941. E poi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’interminabile scontro armato con l’Etiopia. Prima con la guerra di liberazione, vinta dagli eritrei nel 1991 e celebrata nel 1993 con un referendum per l’indipendenza; poi con nuove tensioni tra i due paesi, fino ad oggi, soprattutto nella regione del Tigray. Nel mezzo, il lampo di una pace firmata nel 2018 e durata un paio d’anni. Proprio il periodo di tempo in cui si svolge il viaggio in Eritrea di Giartosio:

dopo tante guerre la lista finiva con pace. […]

La pace come qualcosa che è in grado di.

Come qualcosa che vuole.

Ecco, mi sa che sono partito anch’io perché, nonostante la paura, ero in grado, volevo. E volevo anche vederla in azione, questa pace. (p. 10).

Una foto d’epoca di Asmara (Colonia Eritrea) Piazza Roma e Palazzo Banca d’Italia. Foto di A.A. e F. Cicero, Asmara Massaua, in pubblico dominio

Come sappiamo – e come però si continua a ignorare – la lunga colonizzazione italiana ha condizionato profondamente il paese. Non soltanto nelle architetture e nell’urbanizzazione di (una parte di) Asmara, in parole e insegne commerciali sopravvissute, nelle poche centinaia di italiani che ancora ci vivono – a volte, testimonia Giartosio, ancora succubi di un nostalgismo fuori dal tempo e dalla storia. Ma anche nei cimiteri, nel campo di concentramento italiano dell’isola di Nocra. O, ancora, nel monumento che sorge sul luogo della battaglia di Dogali. Realizzata dagli occupanti italiani, questa «semplice colonna», scrive l’autore,

ricorda i caduti italiani «dalla insidia circuìti e dal numero sopraffatti delle orde nemiche». Nonostante queste parole offensive il cippo è rimasto al suo posto […] E poi, anche se noi quel giorno non lo sapevamo, il memoriale è interamente circondato da fosse comuni che raccolgono (credo) i cadaveri di entrambe le armate; e tra questi caduti gli autoctoni erano molti di più, qualcuno dice sette volte più numerosi. Dogali ricorda una strage di italiani e nasconde una ben più massiccia strage di eritrei. (p. 119)

Monumento sul sito della battaglia di Dogali, a circa 30 km da Massaua. Foto Flickr di David Stanley, CC BY 2.0

Il viaggio in Eritrea di Giartosio è però anche molto altro. È la descrizione dei volti e degli sguardi della popolazione locale, l’ammirazione per il loro spirito di accoglienza («Raro il volto che non ci accoglie con un sorriso»). È, soprattutto, il senso di confidenza e quasi di intimità che l’autore instaura con i giovani eritrei, attraverso lo strumento del gioco. Avviene per strada, nelle feste di matrimonio a cui il gruppo di italiani si ritrova invitato, nelle scuole dei missionari cristiani: lo scambio di battute, il nascondersi e rincorrersi, anche il palleggiare «con i bambini che gridavano Gibentu, Gibentu! (inneggiando alla Juventus) posso considerarli un contributo al dialogo tra i popoli» (p. 27). Ma questo non basta e non poteva bastare. Un ulteriore approfondimento era necessario e l’autore lo riconosce, dopo alcuni giorni di permanenza:

il gioco fa perno sul predominio, lo mette in gioco, cioè al tempo stesso lo evoca e lo sospende, è insieme allenamento e rimozione e per questo ci dà piacere, a meno che il predominio non sia troppo percepibile, tanto da rivelarsi come privilegio reale e schiacciante, perché in tal caso il gioco va in survoltaggio e rischia di sbandare verso qualcos’altro, qualcosa di reale e violento (pp. 72-73).

Tutto quello che non abbiamo visto parla anche di turismo contemporaneo: delle sue problematiche, quindi – e dei selfie che finiscono per interrompere una comunicazione avviata su un piano più alto. E del modo in cui ciascun individuo, nel bene e nel male, interpreta oggi il senso del viaggio. Nel caso di Giartosio, il viaggio in Eritrea offre l’opportunità di approfondire scrittori e scrittrici che a questo paese hanno dedicato altri libri. La ricca bibliografia finale offre numerosissimi spunti di lettura. E già nelle lettere/capitoli scopriamo, ad esempio, la storia di Erminia Dell’Oro, autrice nel 1988 del romanzo Asmara addio. A ritroso, si risale alle pagine scritte da Pier Paolo Pasolini, quando si recò in Eritrea per girare alcune scene del Fiore delle Mille e una notte.

Panorama di Asmara nel 2016. Foto DeviantArt di John Beso, CC BY-SA 3.0

Da questo punto di vista, scrive Giartosio, «Per me avvicinarmi a un paese è sempre avvicinarmi ai suoi libri». Per farlo, sia prima della partenza sia direttamente sul posto, si va in cerca di librerie, biblioteche, scaffali di testi in una lingua sconosciuta che raccontano però sempre qualcosa di quel luogo. Nel viaggio in Eritrea, questo avviene con l’ingresso nella biblioteca del Pavoni Social Center ad Asmara, fondata da fratel Ezio Tonini: un patrimonio librario di valore inestimabile.

Una biblioteca è tutte le biblioteche: trovi sempre quel silenzio vociferante, quell’odore secco e amarognolo, quel pulviscolo che danza esitando a posarsi. Ma ogni biblioteca è anche diversa da tutte le altre. Questa era ospitata in un capannone, sotto capriate azzurre d’acciaio, su file e file di scaffalature d’alluminio. (p. 151)

Attraversare quei corridoi di libri impilati, stipati, accatastati, significa anche attraversare una lingua di terra. O di mare: e il «dolce naufragar» tra i libri si trasforma così nell’immagine ben più drammatica di altri naufragi – che nel ventunesimo secolo, ancora una volta, uniscono tragicamente il destino di Italia ed Eritrea:

Allora e solo allora, nella semioscurità [della biblioteca], ho finalmente capito, Antonio, che questo stanzone caotico e vitale come la coperta di una nave da soccorso mi fa pensare a ciò che ci ronza nella testa fin dall’inizio del viaggio e anzi da ancora prima, dall’inizio di questi terribili anni: i naufragi. Che è anche un motivo, forse il principale, per cui sono partito. (p. 154)

Ferrovia. Foto di Paul Kral 

Il libro recensito è stato gentilmente fornito dalla casa editrice.

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