Lo storico Giorgio Fabre si è già occupato in passato dell’influenza del razzismo di Mussolini nella promulgazione delle leggi antiebraiche e nell’adesione alla «soluzione finale» condotta dal regime nazista. La questione è tuttavia rimasta a lungo al centro della ricerca storica sulla figura del duce. In particolare, la sterminata produzione pubblicistica di quest’ultimo, prima e dopo la conquista del potere, ha contribuito a confondere le acque: nell’opera omnia di Mussolini troviamo del resto affermazioni contraddittorie, anche sul tema della razza. E le sue frasi meno compromettenti vengono ancora citate da chi intende sollevare il duce dall’accusa più grave: quella di aver contribuito in prima persona alla deportazione degli ebrei italiani nei campi di sterminio.

In Il razzismo del duce (Carocci, 2022, pp. 568, euro 49) Fabre compie un ulteriore passo, forse decisivo, per la comprensione del ruolo effettivo giocato da Mussolini. E lo fa attingendo a documenti e materiali d’archivio ancora in gran parte inediti, relativi a un aspetto specifico della sfera di potere mussoliniana: quella del ministero dell’Interno da lui guidato, che ben più della presidenza del Consiglio rappresentò il braccio operativo nell’applicazione dei provvedimenti razzisti e antiebraici. Malgrado l’ampio ruolo di governo concesso dal 1933 al sottosegretario Guido Buffarini Guidi – che seguì il duce nella Repubblica Sociale e fu fucilato a Milano pochi mesi dopo la fine della guerra –, i documenti principali sul tavolo del ministero venivano tutti letti e siglati, con la sua celebre M, dal duce.

Il razzismo del duce Mussolini dal ministero dell'Interno alla Repubblica sociale italiana Carocci
La copertina del saggio di Giorgio Fabre, Il razzismo del duce – Mussolini dal ministero dell’Interno alla Repubblica sociale italiana, pubblicato da Carocci Editore (2021) nella collana Studi Storici Carocci

Negli uffici del ministero, il compito di smistare pratiche e documenti sulla discriminazione razziale degli ebrei (ad esempio sull’espulsione dal lavoro) era svolto dalla cosiddetta Demorazza (Direzione generale per la demografia e la razza). Questa ampia ricerca di Fabre, nonostante alcune lacune tuttora presenti nelle fonti archivistiche, dà ora un nome a burocrati, prefetti, accademici, di più o meno “comprovata fede fascista”, che dal 1938 alla fine della guerra poterono decidere della sorte di intere famiglie di origine ebraica nell’Italia delle leggi razziali. Uomini che in larga parte, come sottolinea Fabre, riuscirono nel dopoguerra ad aggirare le norme sull’epurazione, quindi a conservare il proprio ruolo nelle istituzioni statali e addirittura ad ottenere prestigiose onorificenze e riconoscimenti pubblici. Si trattò insomma – scrive l’autore –

“di un blocco di personale che non era costituito da semplici impiegati: quasi sempre erano prefetti o viceprefetti o consiglieri, ovvero i vari livelli della dirigenza”, insieme alla presenza “talora di veri e propri intellettuali” (p. 18).

Non fu ovviamente personale autonomo nelle sue decisioni: l’adesione al Partito nazionale fascista, in alcuni casi precedente alla marcia su Roma, li rendeva uomini di stretta fiducia del duce. Fabre non ha dubbi:

«fu lui a far nominare e appoggiare in pieno gli alti sottoposti del proprio ministero» (p. 20).

Ed è qui presente uno degli aspetti più interessanti di questa ricerca: il fatto cioè che quello di Mussolini

«sia stato un razzismo costruito su base ministeriale, che traduceva in decisioni legislative e amministrative l’impostazione ideologica e culturale del capo».

Il partito, malgrado le sue beghe tra gerarchi e ras locali, poteva certamente contribuire alla propaganda (e così fu); ma

«la Demorazza […] venne costituita quasi tutta da personale dell’Amministrazione civile».

Benito Mussolini e Adolf Hitler
Benito Mussolini e Adolf Hitler. Immagine Fundo Correio da Manhã, riferimento: BR_RJANRIO_PH_0_FOT_31484_011. Foto Acervo Arquivo Nacional (Brasile), in pubblico dominio

Il ruolo affidato a dipendenti del ministero non escluse peraltro un confronto diretto, anche a livello politico, con le più alte sfere della dirigenza nazista. Fabre cita, a tal proposito, un «testo rilevante e del tutto nuovo»: nel giugno del 1937, un anno prima delle leggi razziali, il direttore dell’Ufficio centrale demografico (la futura Demorazza), a nome del ministero dell’Interno guidato da Mussolini, inviò un telegramma all’Ufficio Razza del partito nazional-socialista per «esprimere l’augurio che il lavoro avviato prosegua con successo» (p. 138). Ci si trova dunque di fronte alla testimonianza concreta di rapporti diretti con dirigenti nazisti che stavano conducendo in Germania un’ampia e indiscriminata persecuzione degli ebrei. E del resto già nel dicembre del ’36 il duce pubblicava sul suo quotidiano un articolo assai esplicativo sull’«antisemitismo come conseguenza ‘inevitabile’» (p. 151).

Per mostrare l’evidenza delle sue conclusioni, l’autore ripercorre fin dai primi capitoli una vicenda emblematica e dolorosa: quella che vide protagonista Oscar Morpurgo, un industriale ebreo di Ancona che, benché vicino al regime e pluridecorato dell’esercito, venne arrestato nel dicembre 1943 e poi deportato sullo stesso convoglio che condusse nei campi di sterminio Liliana Segre. Malgrado la famiglia Morpurgo avesse ottenuto nel 1941, su impulso dello stesso duce, l’attestato di «non appartenenza alla razza ebraica», un’ondata di articoli della stampa fascista, scandalizzati per quella decisione, condusse Mussolini a «promuovere» un riesame di quella pratica, «con un esito che in qualche modo stravolgeva la decisione precedente» (p. 49). Il duce, conclude Fabre a proposito di questa vicenda,

«mostrò qui una debolezza esplicita che non si era mai vista rispetto al Partito, aprendo anche una fase contraddittoria e direttamente persecutoria verso gli ebrei» (p. 51).

Morpurgo morì ad Auschwitz nel febbraio 1945. Ma la sua è soltanto una delle storie di uomini e donne ebrei deportati, i cui fascicoli passarono per gli uffici della Demorazza e dello stesso ministero guidato da Mussolini. Fabre ne riporta nomi e cognomi, insieme alle fonti d’archivio che ne hanno segnato il destino personale. Ma vi sono anche storie che richiedono una ricerca ulteriore per risalire alla verità, e alla mano dei responsabili della deportazione. Come quella di Pia Rimini, giovane scrittrice di successo, tanto da essere segnalata per i suoi meriti dall’Accademia d’Italia nel 1934; e poi, dopo le leggi razziali, censurata, denunciata, arrestata e deportata ad Auschwitz.

Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell'Interno
Il Palazzo del Viminale oggi: è sede del Ministero dell’Interno dal 1925 (in precedenza lo era Palazzo Braschi). Foto di Carlo Dani, CC BY-SA 4.0

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