Per la prima volta a Roma “San Francesco contempla un teschio” del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán

Grazie al prestito dal Saint Louis Art Museum l’opera sarà esposta

dal 16 marzo nella Sala Santa Petronilla dei Musei Capitolini

tra le tele di Caravaggio e Velázquez

FRANCISCO DE ZURBARÁN, San Francesco contempla un teschio
FRANCISCO DE ZURBARÁN
San Francesco contempla un teschio, olio su tela, 1635 ca., Saint Louis, Saint Louis Art Museum

Roma, 16 marzo 2022 – Roma, per la prima volta, accende i riflettori sul maestro spagnolo Francisco de Zurbarán (1598-1664), uno dei più grandi interpreti, insieme a Diego Velázquez e Bartolomé Esteban Murillo, della pittura spagnola del cosiddetto «Siglo de Oro».

Il prestito dal Saint Louis Art Museum e l’arrivo ai Musei Capitolini dal 16 marzo al 15 maggio 2022 del San Francesco contempla un teschio, uno tra i più impressionanti dipinti del formalismo mistico del maestro spagnolo, costituisce pertanto un’occasione d’eccezione per conoscere da vicino il suo peculiare linguaggio pittorico, la cui lezione fu compresa per primi dai pittori francesi dell’Ottocento e riconosciuta dalla critica italiana e internazionale solo a partire dagli anni Venti del Novecento.

MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO (1571-1610),
Buona Ventura, 1597, olio su tela, cm 115 x 150, Roma, Musei Capitolini, inv. PC 131
MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIO (1571-1610)
San Giovanni Battista, 1602, olio su tela, cm 129 x 94, Roma, Musei Capitolini, inv. PC 239

Inoltre, la scelta di allestire l’opera nella Sala Santa Petronilla la pone idealmente in dialogo sia con le due tele di Caravaggio in essa presenti, la Buona Ventura e il San Giovanni Battista, sia con il Ritratto di Juan de Córdoba di Diego Velázquez: quattro capolavori, dunque, eseguiti nell’arco di circa cinquant’anni, il cui accostamento offre una riflessione sull’arte dei tre protagonisti della pittura seicentesca.

DIEGO RODRÍGUEZ DE SILVA Y VELÁZQUEZ (1599-1660)
Ritratto di Juan de Córdoba, 1650 ca., olio su tela, cm 67 x 50, Roma Musei Capitolini, inv. PC 62

Il progetto espositivo “Zurbarán a Roma. Il San Francesco del Saint Louis Art Museum tra Caravaggio e Velázquez” è promosso da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali ed è curato da Federica Papi e Claudio Parisi Presicce. Organizzazione di Zètema Progetto Cultura.

Il San Francesco contempla un teschio del Saint Louis Art Museum, in origine parte di una pala d’altare (retablo) conservata nella chiesa carmelitana del collegio di Sant’Alberto a Siviglia, nonostante le dimensioni contenute, costituisce una delle raffigurazioni più affascinanti del fraticello d’Assisi.

Il santo, vera e propria ossessione pittorica dell’artista (che ripete il soggetto in altri lavori nel corso della sua attività), è raffigurato in piedi, con il caratteristico abito dei cappuccini mentre contempla un teschio che tiene tra le mani. L’aspetto severo e monumentale della composizione è accentuato dal forte rigore geometrico, dalla verticalità del cappuccio e delle pieghe della veste che cade dritta fino a terra lasciando scoperte soltanto le punte delle dita dei piedi scalzi. Il dialogo silenzioso tra il santo e il cranio simboleggia il passaggio dalla vita alla morte alludendo alla fragilità dell’esistenza umana, un tema ricorrente nell’arte barocca spagnola e in generale in quella della Controriforma.

Il processo creativo e visivo è dunque lento e non immediato, come avviene in Caravaggio, e le luci e le ombre non assumono un valore naturale bensì simbolico e spirituale. Il santo, nella sua ascetica contemplazione del teschio, si mostra distaccato e inafferrabile, immerso in una dimensione mistica che trascende la percezione di chi lo guarda.

Proprio sull’uso della luce si incentra il confronto tra il San Francesco del Saint Louis Art Museum e i Caravaggio e il Velázquez della Pinacoteca Capitolina, che mette in evidenza le affinità ma anche le differenze. Se infatti il rapporto tra forma, spazio, tempo e luce rappresenta il comune denominatore, molto diversa è la scelta pittorica e l’interpretazione simbolica che ognuno ne diede.

Lo stile austero e rigorosamente geometrico con il quale Zurbarán costruisce le sue immagini, la capacità di cogliere, anche nei soggetti più umili, il fascino poetico dell’esistenza, il saper conferire alle sue composizioni, attraverso il contrasto tra l’oscurità degli sfondi e la luce dei primi piani, monumentalità e allo stesso tempo naturalismo, ha ispirato per lui definizioni quali: pittore mistico, metafisico, onirico, magico e il soprannome di “Caravaggio di Spagna”, riferitogli per primo dal biografo spagnolo Antonio Palomino nelle sue Vite degli artisti del 1724.

Tra tutti i pittori iberici, Zurbarán è stato l’unico a guadagnarsi questo soprannome sebbene in Italia non sia mai venuto, ma abbia appreso la pittura di Caravaggio solo attraverso le copie di sue opere, giunte in Spagna già nel primo decennio del Seicento, e osservando i dipinti dei seguaci del Merisi, primo tra tutti Jusepe de Ribera. Rarissime sono inoltre le opere di Zurbarán conservate in Italia (soltanto a Firenze e a Genova) e l’unica mostra dedicata al pittore sul territorio nazionale è stata allestita a Ferrara nel 2013, dove peraltro il dipinto di Saint Louis era assente.

Partendo dallo stile di Caravaggio, Zurbarán elaborò una versione personale del tenebrismo applicandola a figure di santi e alle sue iperrealistiche nature morte. Nel maestro spagnolo attraverso la luce si proietta la “grazia” nel mondo fisico così come in quello spirituale, come affermato nella letteratura mistica contemporanea, in particolare quella carmelitana particolarmente diffusa nella cattolica Spagna.

INFO

Zurbarán a Roma.

Il San Francesco del Saint Louis Art Museum tra Caravaggio e Velázquez.

Musei Capitolini – Pinacoteca – Sala di Santa Petronilla

Piazza del Campidoglio, 1

Orari tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima).

Tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)

www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

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Cenni biografici su Francisco de Zurbarán (Fuente de Cantos, 1598 – Madrid, 1664)

Originario della regione dell’Estremadura, Zurbarán si formò a Siviglia presso il pittore poco noto Pedro Díaz de Villanueva entrando però in contatto anche con il più celebre Francisco Pacheco e il suo giovane allievo Diego Velázquez. Nel 1618 si stabilisce a Llrena (Badajoz) dove lavora per chiese e conventi e dove si sposa due volte. Nel 1626 ottiene un importante incarico dai domenicani di Siviglia, città nella quale si trasferirà definitivamente nel 1629 invitato dalle autorità cittadine. Nel capoluogo dell’Andalusia lavorò per le maggiori comunità monastiche realizzando i suoi primi capolavori, tra cui il monumentale e iperrealistico Cristo crocifisso (1627, Art Institute of Chicago), i celebri quadri con episodi della Vita di san Pietro Nolasco (1629, Museo del Prado), i ritratti dei frati dell’ordine della Mercede (Madrid, Accademia di San Fernando) e la solenne tela con l’Apoteosi di san Tommaso d’Aquino (1631, Siviglia, Museo de Bellas Artes). In queste opere Zurbarán si rivela già pittore naturalista e poetico interprete dell’atmosfera spirituale della vita conventuale lontana da qualsiasi vanità e celebrazione. Il tenebrismo di matrice caravaggesca si fonde con il suo cromatismo rendendo reali i soggetti per effetto della luce, veicolo del divino, che illumina e scolpisce come un’accetta i suoi modelli. Nel 1634 su iniziativa di Velázquez è chiamato a Madrid per partecipare alla decorazione del palazzo del Buen Retiro per il quale esegue dieci grandi quadri a soggetto mitologico. Tornato a Siviglia con il titolo di «pittore del re», realizza il ciclo pittorico per la Certosa di Jerez, oggi smembrato (1637-39, Musei di Cadice e Grenoble, Metropolitan Museum) e quello ancora in situ del monastero geronimita di Guadalupe (1638-39), ritenuti tra le opere più valide della sua produzione matura per l’interpretazione fortemente realistica del misticismo ispanico più profondo. Alla fiorente attività del suo laboratorio si affiancano però diverse avversità nella sfera privata: nel 1639 muore la seconda moglie e dieci anni dopo perde anche il figlio collaboratore Juan colpito dalla peste del 1649. Il decennio successivo vede il mesto tramonto della sua fama sotto l’imperversare a Siviglia della nuova pittura dolciastra di Murillo. Zurbarán, concentra quindi la sua attività su una serie di dipinti destinati al fiorente commercio con l’America dove le sue pitture erano ancora particolarmente richieste. Dal 1568 fino alla morte nel 1664 risiederà a Madrid con la terza moglie conducendo una vita modesta e dedicandosi a quadri di piccole dimensioni e di devozione privata. Sono gli anni in cui cercherà di adeguarsi alle nuove mode pittoriche addolcendo le forme e imprimendo alle sue tele un cromatismo atmosferico assimilato da Velázquez, senza però mai rinunciare alla sua monumentale severità. Superbe rimangono ancora oggi le sue nature morte (bodegones), tanto ammirate da Cezanne e Morandi, per la maestria con cui seppe rendere potentemente reali gli oggetti: vasi, frutti, fiori o tessuti, riprodotti come entità fisiche e allo stesso tempo evidenze ottiche astratte. Basti a titolo di esempio l’iperrealistica Natura morta con piatto di cedri, cesto di arancia e tazza con rosa della Norton Simon Foundation di Pasadena.

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Francisco Zurbarán (1598-1664)
San Francesco contempla un teschio, 1635 ca.
olio su tela, cm 91,4 x 30,5 Saint Louis, Saint Louis Art Museum, inv.47:1941

È una delle raffigurazioni più impressionanti di San Francesco d’Assisi, ossessione pittorica ed eponima di Zurbarán. Il santo, vestito con l’abito dei frati minori cappuccini, è in piedi in atto di avanzare verso di noi mentre medita sul teschio che tiene tra le mani. Il capo è reclinato e il volto si intravede appena sotto al cappuccio appuntito che verticalizza la figura e che si ripete come una eco nell’ombra alle sue spalle. Se la figura a un primo sguardo può sembrare un modello studiato dal vero, in realtà essa si svela ai nostri occhi come un’invenzione che emerge lentamente dal buio e prende forma per effetto della luce `divina´ che la colpisce. La tavolozza, quasi monocroma, concorre al rigore e alla forte austerità devozionale trasmessa dal santo raccolto in un muto dialogo con il cranio, chiara allusione alla fragilità dell’esistenza umana e alla sua brevità.

Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610)
Buona Ventura, 1597
olio su tela, cm 115 x 150 Roma, Musei Capitolini, inv. PC 131

Il dipinto è un importante esempio delle novità dirompenti introdotte in pittura da Caravaggio. Raffigura un episodio di vita quotidiana cui sembra di poter assistere in un giorno qualunque inoltrandosi tra i vicoli e le piazze della Roma di fine Cinquecento. Partendo dal fondo della tela Caravaggio costruisce uno spazio indefinito ma reso reale dalla luce naturale che invadendo il campo pittorico costruisce forme e volumi. I personaggi, una zingara e un giovane cavaliere, sono modelli viventi, vestiti con abiti contemporanei, tratti dall’osservazione del vero. Tuttavia, il soggetto dell’opera non è solo ciò che si vede: la giovane e seducente zingara, con il pretesto di leggere il futuro al cavaliere, gli prende la mano e con un gesto rapido gli sfila l’anello dall’anulare destro, dunque un chiaro monito a non farsi ingannare e a non cedere alla seduzione dei falsi profeti.

Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610)
San Giovanni Battista, 1602
olio su tela, cm 129 x 94 Roma, Musei Capitolini, inv. PC 239

Il dipinto raffigura un giovane completamente nudo, adagiato su una pelle di animale e su panni bianchi e rossi, mentre abbraccia felice un ariete e sorride girandosi verso lo spettatore. La luce proviene dall’alto a sinistra, colpisce la schiena nuda del ragazzo, parte del viso e della gamba destra, lasciando invece in ombra il resto del corpo. Nell’opera Caravaggio ha umanizzato il divino e divinizzato l’umano: San Giovanni si rincarna in un giovane sorridente, malizioso e sensuale, che esprime con tutto il suo corpo la gioia di vivere. A sua volta il fanciullo interpreta un giovane santo ancora ignaro del suo drammatico destino. La figura sembra emergere all’improvviso dall’oscurità e materializzarsi improvvisamente davanti ai nostri occhi in uno spazio reale, sotto una luce reale, in un tempo reale, che quasi ci sembra di poterla toccare.

Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599-1660)
Ritratto di Juan de Córdoba, 1650 ca.
olio su tela, cm 67 x 50 Roma Musei Capitolini, inv. PC 62

Il ritratto raffigura l’agente della corona spagnola Juan de Córdoba, braccio destro di Velázquez nel secondo soggiorno romano dell’artista (1649-1651). Il dipinto fu verosimilmente realizzato in omaggio al suo fidato amico, come peraltro lo sciolto trattamento pittorico e lo stato quasi di abbozzo della veste inducono a pensare. Guardando il volto dell’uomo si rimane catturati dallo sguardo che il personaggio ci rivolge. Di lui Velázquez ci restituisce non solo la veridicità delle sembianze ma la sua umanità, i suoi pensieri più intimi, la sua individualità. Un realismo penetrante e allo stesso tempo romantico, che mette a nudo la persona e dove forma e sembianze non sono definite ma solo suggerite con una pennellata sciolta e veloce in cui anche i contorni sembrano dissolversi nella vibrazione del respiro dell’uomo.

Testi e foto dall’Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura

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