Autobiografia del contemporaneo: un cortocircuito con il mito

Sarcofago di epoca romana da Perge (odierna Turchia). Al centro Eracle e Gerione. Foto Mourad Ben Abdallah / Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0

Accade frequentemente di celebrare il potere salvifico della bellezza: la letteratura e l’arte come un viatico che permette di accedere a una dimensione nobile, pura, e aspirare così a una versione migliore di sé e del mondo; a ben vedere, si tratta talvolta di una forma di compiacimento, talvolta della ricerca di una qualche rassicurazione. La poesia, tuttavia, non è quasi mai pacificante – e di certo non lo è il mito, che, lungi dall’essere consolatorio, sa far vibrare il mostruoso e il perturbante che abitano le nostre vite inquiete. Il romanzo in versi della canadese Anne Carson, Autobiografia del Rosso, recentemente ripubblicato da La nave di Teseo, con il suo cortocircuito tra classico e contemporaneo non promette scampo, anzi incoraggia l’irrequietezza, il dubbio, la necessità di prestare ascolto anche a ciò che è controverso e perciò ci agita.

La fonte della folgorante riscrittura è la Gerioneide di Stesicoro, opera pervenuta in forma frammentaria e che tramanda (dal punto di vista della vittima e non dell’eroe) la vicenda del mostro a tre teste Gerione ucciso dall’invincibile Eracle, il quale giunge fino ai confini del mondo per rubare al gigante i buoi e dare così compimento a un’altra delle sue fatiche. Memorabile, secondo Anne Carson, è l’uso che il poeta greco fa degli aggettivi, segnando il passo rispetto alla tradizione: nei poemi omerici essi sono ancora epiteti ricorrenti, espressione della rigidità di un codice attraverso il quale si ribadisce che ogni cosa deve occupare saldamente il suo posto nel mondo – per Omero, cioè, gli aggettivi sono «cardini dell’essere»; Stesicoro, con rinnovato impeto, smonta quei cardini e di colpo libera l’essere. Egli è in effetti il poeta della ritrattazione, della smentita, ovvero della palinodia, il canto intonato di nuovo, in una forma altra.

Anfora attica attribuita a un Pittore del Gruppo E. Foto Metropolitan Museum of Art, Image and Data Resources Open Access Policy, CC0

Anne Carson è fedele all’istinto ribelle di Stesicoro: nel solco di quella rivolta antica, anche lei tradisce la tradizione, plasmando la figura vermiglia di Gerione, il Rosso del titolo, intorno alle ansie del nostro tempo. Il suo protagonista è un adolescente goffo dalla sensibilità spiccata, custode di timidezze e profondità vertiginose, imprigionato in una diversità che per gli altri è un marchio infamante; le sue ali ingombranti impacciano i suoi movimenti e paradossalmente ostacolano i suoi voli. Eracle, non più rivale ma oggetto d’amore, è colui che con l’arroganza della bellezza e della gioventù, sconvolge l’esistenza di Gerione, colmando i suoi vuoti (o forse solo illudendolo che così sia), facendogli sentire fin dentro la pelle il significato del desiderio, della gelosia, del dolore. Figura ambigua, ma determinante per la crescita del protagonista, Eracle vorrebbe infondere in lui il bisogno di libertà di cui egli stesso si nutre; «Io non voglio essere libero / io voglio essere con te», ribatte Gerione dal fondo cavo della sua inerme purezza. Non sarà l’imprendibile Eracle a pronunciare le parole dell’amore, non sarà lui a confessargli: «Vorrei vederti usare quelle ali». Da un’altra voce giungerà quell’esortazione a compiere un corpo a corpo con l’identità.

Lo slancio narrativo dell’opera non impedisce alla sua autrice di accordare afflato lirico al dettato. Attraverso gemme poetiche uniche, Anne Carson impartisce ai lettori una lezione impagabile sulla distanza, sulla necessità di fermarsi sul «limitare / di ciò che può essere amato» – che resta inconoscibile. Siamo «creature che salgono una collina», scrive l’autrice, «a varie distanze […]. A distanze che mutano costantemente. Non possiamo aiutarci l’un l’altro né gridare»: ognuno compie il proprio viaggio, secondo il proprio passo, adempiendo l’irrevocabile comandamento della lontananza. «Stavo pensando al tempo – annaspa – / tipo a quanto sono divise le persone nel tempo, contemporaneamente unite e divise», sentenzia Gerione in uno dei suoi momenti di illuminazione oracolare. La sua autobiografia è in effetti tutta una questione di luce: il Rosso non ferma la sua vita in un fluire prorompente di parole, ma la immortala attraverso fotogrammi scelti. Ecco la poesia, quella capacità di dare un nome a ciò che sfugge, quel coraggio di dire l’indicibile. Nella percezione che Gerione ha del mondo non esistono confini tra rumori, odori e colori: tutto si tiene, anche se appartiene a sfere sensoriali diverse, nel nome della sinestesia e dell’immaginazione, nel nome dei poeti testimoni, «coloro che andarono e videro e tornarono».

«La realtà è un suono, cerca di coglierlo invece di star lì a sbraitare»: non vi è promessa di salvezza nelle pagine di Anne Carson, ma un’esortazione ad attraversare la notte prestando attenzione ai segni, ai dettagli, alle scintille; nel cortocircuito straniante col presente, attraverso le parole della scrittrice, oggi il mito ci insegna cioè a non sprecare quegli istanti in cui ognuno di noi possiede se stesso.

«Noi siamo esseri stupefacenti, / sta pensando Gerione. Noi confiniamo col fuoco. / E adesso il tempo si precipita verso di loro / lì dove stanno ritti uno accanto all’altro con le braccia che si sfiorano, immortalità sul volto, / notte alle spalle».

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La copertina del romanzo in versi Autobiografia del Rosso di Anne Carson, nell’edizione pubblicata da La nave di Teseo nella traduzione di Sergio Claudio Perroni

La prima edizione del romanzo in versi Autobiography of Red di Anne Carson risale al 1998, la prima edizione italiana di Autobiografia del Rosso è di due anni successiva, del 2000.

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.

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