I processi per lo scioglimento dell’ordine templare – Il caso della Terra d’Otranto

La vicenda dell’ordine templare si può considerare come una delle più evocative nell’immaginario contemporaneo del Medioevo. Le cause di questa straordinaria resistenza sono molteplici: la documentazione a disposizione; il fascino romantico del mito della militanza cristiano-cavalleresca; la più recente fascinazione per l’esotismo esoterico di un filone letterario apocalittico o cospirazionista che vede i Templari tra i protagonisti di bizzarre teorie o avventure immaginifiche.

processi scioglimento ordine templare
(Raffigurazione dei livelli interni all’Ordine del Tempio: i servientes a sinistra, i milites al centro e i sacerdotes a destra. Immagine Münchener Bilderbogen, 1870, nr. 733, in pubblico dominio)

Tale vitalità ha incontrato un notevole riscontro attraverso la volontà di recuperare la ‘vera’ storia dei membri dell’ordine e di superare le miopie associate allo stigma impresso su di loro dai processi che portarono alla dissoluzione dell’ordine tra il 1307 e il 1314. Questi ultimi furono un passaggio traumatico, tanto dirompente da cancellare l’ordine quasi del tutto, ma furono anche il punto di arrivo della lunga campagna di delegittimazione a cui i Templari furono sottoposti assieme ai membri degli altri ordini cavallereschi da parte di molte voci autorevoli sia all’intero della Chiesa sia tra i laici. E altrimenti non poteva essere. Dalla metà del secolo XIII, infatti, si diffuse nell’Europa occidentale una critica sempre più incisiva al fenomeno della crociata come guerra di liberazione della Terra Santa dalle potenze politiche musulmane. Le grandi élite europee, quelle che formavano le monarchie feudali, erano stanche di partecipare in persona o col denaro a spedizioni militari che continuavano a rivelarsi per lo più infruttuose. I disastrosi esiti delle crociate di Luigi IX e gli altolà delle potenze marittime mediterranee, stanche di guerreggiare e desiderose di intrattenere più lucrosi scambi commerciali con gli emiri e i califfi musulmani, finirono con l’accelerare la calata del sipario sull’avventura crociata.

Questa chiusura, però, non fu indolore com’è facile intuire. A subirne gli effetti più gravi furono quelle entità coinvolte strettamente nell’avventura crociata, come gli ordini monastico-cavallereschi, nati col compito di sorvegliare i luoghi santi cristiani e di proteggere i pellegrini. Dopo la caduta di Acri (1291) e il venir meno del sogno di riconquista della Palestina, in molti in Europa si chiesero quale fosse il senso del finanziamento di tali ordini. L’interrogativo non era disinteressato o puramente speculativo, ma affondava nella carne viva di un mondo politico feudale che aveva bisogno di denaro e di ricchezze per consolidare le proprie pretese e, se necessario, fare la guerra per imporle.

Esattamente in questa temperie vanno pensati i processi per la distruzione dell’ordine del Tempio, nel bel mezzo dell’attività di un sovrano accentratore, il francese Filippo IV, e di un papa, Clemente V, desideroso di dimostrarsi all’altezza dei suoi predecessori duecenteschi, dunque in grado di difendere le prerogative del Papato all’intero del vasto mondo ecclesiastico e dinanzi agli strappi e alle provocazioni del sovrano che aveva umiliato la Sede Apostolica appena quattro anni prima.

Ma non si trattava solo di una questione di persone. I processi, infatti, si celebrarono in forme stabilite con rigore dalla Chiesa romana, seguendo canoni e regolamenti rigidamente impostati da apparati che poteva raggiungere l’intero continente, comprese le sue periferie. Proprio grazie a questa capacità (e per nostra fortuna), tali apparati toccarono anche il Salento, allora noto col nome di Terra d’Otranto. Non si tratta di una casualità. Qui si trovava, infatti, uno dei maggiori porti del mar Mediterraneo e il terminal dei principali cammini continentali dei pellegrini, cioè Brindisi. Quei fattori avevano stimolato il radicamento di diversi ordini religiosi in città, tra cui gli immancabili Templari. Non va dimenticato, però, che esistevano altri centri di rilievo con una forte presenza di ordini cavallereschi, come Otranto più a sud e Bari e Barletta più a nord. Proprio quest’ultima città assunse la funzione di centro di riferimento per molti di quegli ordini, tra cui ancora una volta i Templari, come vedremo a breve.

La ricchezza dell’ordine del Tempio e la centralità del controllo delle vie dei pellegrini mettono in luce le ragioni dell’attenzione rivolta dal Papato al regno di Sicilia, pieno di case (le domus) e di beni amministrati dai tanti fratelli cavalieri (milites) o serventi (servientes). Ma non solo. La tradizionale opera di accoglienza e di protezione verso uomini dalla dubbia moralità aveva prodotto diverse critiche sia da parte del popolo sia delle gerarchie, ecclesiastiche e politiche, come si ha eco anche nei processi contro l’ordine. Questo valeva anche per il Meridione italiano, dove esisteva il concreto pericolo che nelle case si nascondessero malfattori, ribelli e agitatori di popolo e, infatti, né re Carlo II né re Roberto si opposero alla decisione di sciogliere l’ordine.

(Rogo di templari, immagine dalla traduzione francese a cura di Laurent de Premierfait (Des cas des ruynes des nobles hommes et femmes) dell’opera di Giovanni Boccaccio, De casibus virorum illustrium. British Library, Royal 14 E V, f. 492v, immagine in pubblico dominio)

A ogni modo, per quanto le ragioni potessero essere molto complicate e affondare le proprie radici indietro nel tempo, i processi erano una questione di persone: quando la campagna di delegittimazione compì il salto di qualità e divenne campagna di distruzione dell’intero ordine templare, a essere colpiti furono i suoi membri per le loro condotte. E dai processi emerge tutto questo, come possiamo vedere da vicino grazie a quello svoltosi a Brindisi nella tarda primavera del 1310 a opera di una commissione inquisitoriale nominata da papa Clemente V e tenuta sotto stretta sorveglianza da esponenti della curia romana. Lo scopo era quello di raccogliere testimonianze in grado di incriminare il precettore delle case templari nel Mezzogiorno, Eudes di Valdric. Il mezzo per farlo era sottoporre a estenuanti interrogatori tutti i templari sotto arresto con un lunghissimo elenco di domande (123, portato poi a 127). Il compito degli inquisitori era quello di indurre gli imputati a deporre contro Eudes senza entrare in contraddizione. Era un impegno non da poco, visto che i cavalieri del Tempio si rifiutavano di rispondere durante le sedute dei processi-farsa e chi decideva di collaborare solitamente forniva dettagli personali e poco rilevanti. Da qui, la decisione del pontefice di affidare il compito a personalità che ben conoscevano le sue intenzioni, come Humbert d’Ormont, arcivescovo di Napoli, Bartolomeo d’Eboli, arcivescovo di Brindisi, e Francesco, vescovo di Avellino. Ma per essere del tutto certa dell’esito, la curia dispose la presenza anche di altri uomini di nazionalità francese e inviati per sorvegliare le procedure (e i giudici locali). Non deve stupire questa decisione: Clemente V non si fidava dell’élite ecclesiastica meridionale, considerata autoreferenziale e omertosa.

(Firenze, Santa Maria Novella, Apoteosi di San Tommaso d’Aquino, Papa Clemente V e la legge canonica. Foto di Francesco Bini, CC BY 3.0)

Cos’è possibile sapere del processo salentino e delle persone che furono messe sotto processo? Si trattava di due servientes, cioè due laici non di origine nobiliare, Giovanni di Nardò e Ugo de Samaya. Il primo era un rusticus, cioè si occupava dell’attività di coltivazione di alcuni appezzamenti di terra. Dunque, le deposizioni superstiti sono di due uomini che non si possono considerare appartenenti alla dirigenza. E di questo si deve tenere conto nel corso di quanto verrà detto d’ora in poi.

La testimonianza più completa e significativa è quella di Giovanni di Nardò. Questi era un simplex, un uomo analfabeta, ed era entrato nell’ordine nel 1293 facendone richiesta alla domus di Barletta. Egli fu accolto assieme a un altro uomo, un sacerdote, e giurarono nelle mani del precettore generale, Eudes di Valdric. Visto il suo nome, non è da escludere che Giovanni fosse salentino. Fu al servizio dell’ordine per oltre dieci, ma non è chiaro quali furono i suoi spostamenti. Nel rispondere alle domande degli inquisitori, infatti, Giovanni riferisce di episodi o di persone della casa barlettana, eppure egli fu catturato e imprigionato nel castello di Cosenza e lì dovette rimanervi per diversi mesi, tanto da fare in tempo a instaurare un buon rapporto col guardiano del convento dei frati Minori di Castro Villari e a farsi assolvere dai peccati di presunta apostasia o eresia commessi mentre erano nell’ordine. Eppure, dopo l’assoluzione, il poveretto fu comunque trasferito da Cosenza a Brindisi in un periodo non meglio precisato per comparire dinanzi agli inquisitori. Lì si trovava quando la commissione fece pubblicare l’editto di convocazione per tutti i templari o i testimoni utili per il processo del maggio-giugno del 1310.

processi scioglimento ordine templare Terra d'Otranto
(Santa Maria del Casale, presso Brindisi, residenza dell’arcivescovo Bartolomeo d’Eboli, luogo dove si svolsero le udienze del processo del 1310. Foto di Roberto sernicola, in pubblico dominio)

In questa complicata stratificazione dei ricordi si cristallizza il problema che noi contemporanei possiamo avere nell’approcciarci a quanto riferito nei resoconti dei processi. Ripercorriamo il filo della memoria nelle risposte senza renderci conto che esso era tirato da più attori con interessi spesso confliggenti. Le deposizioni di Giovanni, infatti, avvenivano in volgare ed erano registrate secondo l’uso delle reportationes, cioè delle trascrizioni tachigrafiche. Esse, poi, subivano un’ulteriore processo di mediazione perché venivano ritagliate dal notaio compilatore del documento sulla base di quanto riteneva realmente interessante ai fini della sentenza. Non c’era alcuna pretesa di esaustività o completezza perché si trattava comunque di procedimenti orientati politicamente. Quel che compare, dunque, non è quanto Giovanni realmente disse, ma piuttosto quanto era stato approvato dai giudici per la redazione del documento conclusivo delle deposizioni. Di conseguenza, la scansione temporale ne risulta largamente manomessa. E le distorsioni si estendevano anche ai contenuti delle risposte e a quanto è possibile cogliere delle strategie difensive di Giovanni. Dato che la sua testimonianza era ritenuta utile per accusare Eudes e l’ordine, tutte le sue risposte dovevano andare in quella direzione. Dal canto suo, Giovanni doveva cercare di scaricare le responsabilità dei suoi comportamenti per evitare una condanna piena per eresia, motivo per cui nelle sue risposte si deve intravedere il tentativo di un uomo di offrire ai suoi accusatori quanti più elementi possibili per soddisfarli, giungendo anche a far passare per reati comportamenti normali o irrilevanti per il procedimento.

(il Giudizio Finale sulla controfacciata della chiesa di Santa Maria del Casale, opera di Rinaldo da Taranto. Foto di Roberto sernicola, CC BY-SA 3.0)

Alcuni esempi sono indicativi. I tre reati di cui i Templari furono accusati erano la blasfemia, l’idolatria e la sodomia. Di conseguenza, gli inquisitori avevano bisogno di raccogliere testimonianze di episodi che evidenziavano la partecipazione dei membri dell’ordine a riti o a comportamenti blasfemi, idolatrici o sodomiti. Ebbene, Giovanni riferì quelli che, secondo lui, erano episodi incriminanti: la rinnegazione della croce dinanzi ai confratelli della casa di Barletta (ma non davanti a Eudes, il quale non si trovava neppure nell’edificio); la decisione di urinare sulla stessa croce; l’atto di reverenza a un gatto. A ulteriore riprova della notorietà di questi atti, egli evocò le grida degli uomini del carcere di Cosenza, i quali, nel vederlo arrivare assieme agli altri templari, gridarono che erano giunti gli idolatri adoratori dell’idolo di Cipro. Il notaio specifica che il termine utilizzato da quegli uomini fu “patarini”, il quale apparteneva all’uso della cancelleria pontificia, ma molto meno al parlato volgare. Da qui il sospetto che, in realtà, il notaio curiale riprodusse quanto sentito secondo i suoi modelli intellettuali. A ogni modo, gli episodi avevano delle criticità in quanto i prigionieri erano calabresi, mentre gli atti blasfemi furono compiuti a Barletta. Come avrebbero potuto esserne a conoscenza? A meno che le grida non fossero altro che i lamenti della vox populi, e dunque del tutto inutilizzabili ai fini del processo secondo le norme disposte da Bonifacio VIII nel Liber sextus sulle denunce non personali. Del resto, nonostante la ripetitività delle domande, Giovanni continuava a sostenere che il precettore generale per il regno non era presente agli atti di blasfemia, mentre lo erano tanti altri della casa. Anche le deposizioni sull’attività sodomitica non erano minimamente attinenti. Giovanni, infatti, riferì di un templare scoperto ad avere rapporti sessuali con un suo domestico, ma ricorda che questi fu imprigionato e severamente punito, a riprova del funzionamento del sistema di disciplinamento interno all’ordine. Esso era ben funzionante, almeno presso la casa di Barletta, come rivela la pratica delle confessioni pubbliche nel rito del partimentum, cioè allo scioglimento dei capitoli delle case, un sistema di controllo continuo e pubblico dei comportamenti che danneggiavano l’intero ordine.

Visti i contenuti delle testimonianze, sorge il dubbio sulle motivazioni che abbiano spinto gli inquisitori a considerare come utili alla cause notizie come quelle fornite da Giovanni di Nardò. In effetti, di primo acchito si fa fatica a cogliere la coerenza delle sue indicazioni e ancora di più si fa fatica a coglierne il senso rispetto alle intenzioni degli inquisitori, che di questi racconti avevano bisogno. Ebbene, le riscritture notarili vanno tutte quante nella direzione di dimostrare che all’interno dell’ordine esistesse una disciplina rigorosa, la quale però non aveva come scopo ultimo quello della perfezione cristiana ma dell’educazione al servizio del demonio. La ritualità delle attività, il controllo pubblico dei comportamenti e la scarsa formazione erano proposti come indicatori di un comportamento settario e ostile all’ordine della Chiesa (anche se quest’ultima impiegava i medesimi strumenti!). Per provare la non ortodossia di quello che avveniva nella casa templare di Barletta, gli inquisitori indugiano sui motivi della complicità di Giovanni e sulle ragioni che lo spinsero a non abbandonare l’ordine e a non denunciarne i peccati (quelli che noi oggi definiremmo abusi). Dinanzi a queste domande, Giovanni, che voleva difendere sé stesso e non più l’ordine templare, si limitava a scaricare tutte le responsabilità dei suoi atti sui superiori, derubricando i suoi atti all’obbedienza verso gli ordini a lui impartiti dai suoi superiori e allo stato di necessità per evitare le ritorsioni dei confratelli con la perdita dello status clericale. In questo si coglie, forse, uno dei pochi tratti più genuini delle deposizioni di Giovanni, la disperazione di un uomo che aveva paura di perdere tutto. Questo scaricabarile, però, era funzionale ai suoi accusatori, in quanto permetteva loro di puntare il dito contro la dirigenza delle case del regno nella persona di Eudes, il quale o era stato complice dei misfatti oppure era stato negligente e non li aveva combattuti.

Lo sfruttamento della disperazione di uomini semplici, verosimilmente spinti da ragioni personali o egoistiche a collaborare per salvare le loro vite, apre uno squarcio sul livello di farsesco che accompagnò i processi conto l’ordine del Tempio. Le dichiarazioni dei singoli erano impiegate per elevare a sistema situazioni e punti di vista circoscritti e che non descrivevano la prassi dei monaci templari. Ne viene fuori così una sensazione di straniamento verso un sistema tanto rigoroso, che si rivelava capace di mescolare vox populi e miserie dei singoli. Forse anche in ragione di queste costatazioni possiamo considerare i processi di templari come il grande spartiacque della storia europea, il primo grande processo politico condotto con metodi moderni (massmediali secondo Franco Cardini) e destinato a segnare le successive tappe della disciplina della società che tanti danni farà nei secoli successivi nel nome del bene superiore della rampante élite europea.

scioglimento ordine templare Otranto
(Dettaglio del Giudizio Finale sulla controfacciata della chiesa di Santa Maria del Casale, opera di Rinaldo da Taranto. Foto di Roberto sernicola, CC BY-SA 3.0)

Bibliografia minima di riferimento

F. Cardini, I templari, Firenze 2011.

F. Cardini, Templari e templarismo: storia, mito, menzogne, Rimini 2011.

B. Frale, La leggenda nera dei Templari, Bari-Roma 2018.

V. Ricci, I Templari nella Puglia medievale, Bari 2009.

K. Toomaspoeg, The Templars and their Trial in Sicily, in The Debate on the Trial of the Templars (1307-1314), ed. J. Burgtorf – P.F. Crawford – H. J. Nicholson, Ashgate 2010, pp. 273-283.

Der Untergang des Templerordens mit urkundlichen und kritischen Beiträgen, hrsg. Von K. Schottmüller, vol. II, pp. 104-140.

Sono un giovane ricercatore ora in attività presso l'Università della Campania "L. Vanvitelli". Mi occupo in prevalenza di storia della Chiesa medievale e di istituzioni del Mezzogiorno nel Basso Medioevo. Sono membro del direttivo GRIMM e sono socio della Società Italiana degli Storici Medievisti e della Società di Storia Patria per la Puglia.

Write A Comment

Pin It